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TTIP, un oggetto misterioso
 
di Giuseppe Ladetto
 

TTIP è l’acronimo di Transatlantic Trade and Investment Partnership (Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti) attualmente in fase di negoziazione tra Governo nordamericano e Commissione europea. Nei media e nella grande stampa, è raro trovare indicazioni in merito. Una positiva eccezione è costituita da “Il nostro tempo” che, nell’edizione del 20 aprile scorso, in un articolo di Aldo Novellini, ne ha dato ampia informazione.
Il trattato in elaborazione dovrebbe condurre l’Unione europea dei 28 Paesi e gli Stati Uniti a creare un unico grande mercato in cui scambiare beni e servizi senza barriere, con un quadro regolativo armonizzato. Come già detto, di tale negoziato se ne sente parlare poco perché le trattative si svolgono a porte chiuse. C’è infatti l’esplicita volontà di sottrarre quanto è in cantiere all’attenzione del pubblico. Quest’ultimo infatti, se fosse a conoscenza di quanto si sta preparando, potrebbe inquietarsi per gli effetti dirompenti che il trattato produrrà sull’assetto dei Paesi coinvolti, ai quali verranno imposte normative tese a soddisfare gli appetiti delle grandi imprese private, aggirando la tutela degli interessi generali che le politiche pubbliche si propongono ancora di rappresentare.
Qualche generica notizia in merito ci viene dai giornali di settore, nei quali i soliti esperti di economia descrivono il trattato come il maggiore accordo commerciale tra le due sponde dell’Atlantico, da cui verranno grandi benefici ai Paesi contraenti. L’Europa, ci dicono, deve attendersi una sensibile crescita del PIL (con un aumento del fatturato continentale di 120 miliardi di euro annui) e più di due milioni di nuovi posti di lavoro. Uno studio comunitario valuta che, a pieno regime, ogni famiglia in Europa potrebbe avere un reddito annuo aggiuntivo di 500 euro. A parlare così sono coloro che vedono la soluzione di ogni problema nella piena affermazione del mercato globale all’insegna del neoliberismo.
Tuttavia nella realtà possiamo constatare che le cose non hanno sempre avuto per tutti questo favorevole andamento. Le privatizzazioni e l’eliminazione delle barriere agli investimenti possono incidere sull’aumento del PIL, ma i vantaggi e gli svantaggi che ne derivano non sono egualmente ripartiti tra Paesi e tra categorie sociali, cosicché tendono a crescere le disuguaglianze tra le aree e all’interno di ogni Paese.

Tra i pochi informati della natura del trattato, non inscrivibili tra gli addetti ai lavori, ci sono forti timori per le pesanti ripercussioni negative che potrebbero derivarne sul modello sociale ancora vigente in Europa e sugli standard europei di qualità e di sicurezza dei prodotti agricoli, alimentari e industriali, notoriamente più rigorosi di quelli di Oltreoceano. Dal trattato dobbiamo attenderci una forte deregolamentazione in tema di lavoro, e nuove liberalizzazioni che immetteranno sul mercato i residui servizi pubblici a favore di soggetti privati nazionali o internazionali. Per eliminare tutto ciò che è ritenuto di ostacolo al commercio, vengono rimosse le regole e le garanzie conquistate nei principali Paesi europei a seguito di lunghe battaglie politiche e sindacali. Non c’è una sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato: beni comuni (acqua, risorse naturali, ecc.), cultura, libertà in rete, brevetti ecc.
C’è grande preoccupazione per quanto attiene al settore sanitario dove si teme che verrà a prevalere la logica del profitto a scapito del carattere pubblico e universale del servizio e degli standard attualmente vigenti nei principali Paesi europei. Anche nell’istruzione (dalle scuole materne all’università) potrà risultare ridimensionato il ruolo pubblico a vantaggio di logiche di puro profitto.
I guasti maggiori dobbiamo temerli nel settore ambientale, dove pesa la scelta fatta dagli Stati Uniti per lo sfruttamento del petrolio e del metano presenti negli scisti e nelle sabbie bituminose, idrocarburi che andranno a incrementare le emissioni di CO2, causando ulteriori gravi alterazioni del clima. Si aggiunga il largo uso, in questo Paese, del carbone per la produzione di energia elettrica, sostenuto da una forte lobby in grado di condizionale le decisioni di molti membri del Parlamento. L’armonizzazione legislativa aprirà inevitabilmente la strada a queste nuove fonti di idrocarburi e incrementerà la realizzazione di centrali a carbone anche in quei Paesi europei ove è maggiore la sensibilità ambientale. In tale ambito, come in quello agricolo, si avranno inoltre conseguenze negative per la rimozione del “principio di precauzione”, oggi vigente in Europa, ma avversato da sempre dalla cultura dominante negli USA.

Tuttavia l’aspetto più sconcertante del trattato in cantiere è quello che consente alle imprese di ricorrere a sedi estranee alla giustizia ordinaria (nazionale e internazionale) per opporsi alle politiche attivate nei Paesi firmatari del trattato. Le controversie tra Stati e investitori sono affidate ad arbitrati operati da Corti speciali composte da tre avvocati d’affari. Queste Corti, sulla base delle norme del trattato e di quelle già vigenti della Banca mondiale e dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), sono abilitate a condannare gli Stati a pesanti riparazioni qualora una legge nazionale venisse ritenuta responsabile di effetti restrittivi sulle attività produttive e commerciali delle imprese ricorrenti. In tali arbitrati, vengono messi sullo stesso piano gli Stati e le imprese, come se le esigenze di queste ultime avessero la stessa rilevanza degli interessi generali e collettivi rappresentati dai primi. Qualunque investitore potrà pertanto ricorrere a tali arbitrati nei confronti di uno Stato che, a suo giudizio, abbia arrecato danno ai suoi profitti a causa di scelte politiche o legislative. Il trattato prevede che i Paesi firmatari debbano assicurare la messa in conformità delle loro leggi e dei loro regolamenti con le disposizioni in esso presenti. Così i rappresentanti del popolo (dai Parlamenti nazionali ai Consigli comunali) dovranno ridefinire da cima a fondo le politiche pubbliche per soddisfare gli appetiti delle imprese private e delle multinazionali, che non mancheranno di far valere le opportunità che questo nuovo strumento offre loro.

Tutto ciò sembra assurdo, ma è in linea con quanto previsto dai trattati commerciali già in vigore. L’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) ha inflitto all’Unione europea pesanti penalità per il rifiuto di importare organismi geneticamente modificati. Il gruppo farmaceutico americano Eli Lilly ha citato in giudizio il Canada, colpevole di avere posto in essere un sistema di brevetti che rende alcuni medicinali più accessibili ai consumatori. Altro caso è quello della Vattenfall, azienda svedese operante nel campo energetico, che ha aperto un contenzioso con la Germania, per aver tale Paese introdotto norme più rigorose sulle centrali a carbone, e rea di voler abbandonare il nucleare, ciò che provocherebbe una lesione dei suoi interessi nel settore. Con tale trattato, si aumenta a dismisura la possibilità che le imprese facciano ricorso agli arbitrati per imporre i loro obiettivi economici a scapito dei reali interessi delle popolazioni.
In questi ultimi anni, a seguito della globalizzazione, si sono indeboliti i poteri degli Stati, non più in grado di far valere la propria volontà nei confronti di ciò che, come il capitale finanziario, può attraversarne i confini sottraendosi a controlli e regole. Il trattato transatlantico in cantiere inevitabilmente manderà in fumo quanto resta dei poteri degli Stati nazionali, demolendo, anche all’interno di essi, gli ultimi argini al dilagare delle logiche mercantili. E ciò riguarderà anche l’ambito comunitario. Oggi, la UE, come tale, è già priva di propri strumenti in campo militare ed è sostanzialmente assente sullo scenario politico internazionale, andando a rimorchio degli Stati Uniti in entrambi i settori. Con il trattato in questione sarà costretta ad abdicare alle proprie iniziative anche nelle politiche economiche e sociali.
A fronte di questi scenari, stupisce l’inerzia del mondo politico europeo, che invece dovrebbe manifestare preoccupazione per quanto sta accadendo, se non per tutelare gli interessi dei cittadini, almeno per evitare a se stesso una ulteriore messa ai margini dei processi decisionali. Forse si preferisce non dire nulla per non dispiacere a chi sta dall’altra parte dell’Oceano. Sono, infatti, gli Stati Uniti ad aver promosso l’iniziativa ed oggi a caldeggiarne fortemente la definizione. Per il governo americano, non si tratta solo di cancellare dazi e quote per merci e ostacoli ai servizi, o di liberalizzare gli investimenti e gli accessi ad appalti pubblici; l’obiettivo è realizzare un mercato unico interatlantico creando una nuova istituzione dotata di personalità giuridica internazionale per legare a sé sempre più i Paesi europei. Se infatti l’Europa procedesse nel suo cammino di unità e di autonomia, diventerebbe un pericoloso competitore non solo commerciale. Boyden Gray, membro del Consiglio Atlantico e già ambasciatore USA all’UE, ha definito il trattato “una NATO estesa all’economia”, mettendone ben in chiaro il significato politico.
È il caso di chiedersi se sia nell’interesse europeo (introducendo una nuova spaccatura nel continente) legare maggiormente il proprio destino a quello della superpotenza che non nasconde l’obiettivo di voler realizzare un mondo unipolare al cui vertice mantenersi saldamente insediata. Il governo statunitense inquadra il trattato oggetto di trattativa in un processo di globalizzazione (di cui si fa garante e guida) che conduca ad un mondo unificato sotto la sua leadership militare, economica e culturale.
Rimanendo sul terreno politico-economico, ritengo curioso che anche quelle forze politiche critiche a parole nei confronti del liberismo selvaggio e della finanziarizzazione dell’economia, nella realtà, finiscano per aderire passivamente a un percorso di mondializzazione fondato su tali aspetti. Infatti, ad imporsi in tale percorso è il modello di capitalismo anglosassone basato sull’individualismo estremo, sullo strapotere del mercato e della finanza e sulla massimizzazione del profitto a breve (e non sarà certo Obama a mutarlo nella sostanza). A tale modello si ispirano le regole del trattato e all’ideologia neoliberista che ne è fondamento.
È pertanto indispensabile informare i cittadini di tutto ciò, spezzando il silenzio intorno al negoziato (fino ad oggi presentato come cosa da esperti) e chiedere conto alla politica di quanto sta accadendo, mettendo i parlamentari, nazionali ed europei, di fronte alle loro responsabilità.


Franco Campia - 2014-07-10
Come persona che segue con una certa attenzione il "pacchetto" informativo passato dai media, confermo il rilievo pressochè nullo attribuito alla questione, come pure la sua assenza nel dibattito politico corrente nel nostro paese. Ciò è forse dovuto al fatto che le trattative sono ancora ad uno stadio arretrato? Possiamo immaginare che prima dell'arrivo alla fase finale il parlamento nazionale ed europeo se ne occuperanno a fondo? O sarà coinvolto il solo Governo? Potremo assistere ad un confronto serio tra i pro ed i contro?
Andrea Griseri - 2014-07-08
Come cambia la storia, ieri gli USA hanno messo la loro potenza al servizio della causa antinazista oggi sono alfieri di un totalitarismo pragmatico e senza passioni. Obama che tante speranze aveva suscitato al suo apparire viene col piglio del padrone in Europa a fare il piazzista di aerei difettosi e di shale gas. Occorre informarsi, informare, mobilitare. Grazie per l'articolo.