Le risorse non rinnovabili sono in via di progressivo esaurimento?
Il loro consumo è ancora in aumento ma, per la maggior parte di esse, stiamo avvicinandoci al cosiddetto “picco”: questo è il punto più elevato della parabola che ne descrive il prelievo, oltre il quale detto prelievo non può che diminuire, perché diventano sempre maggiori le difficoltà e i costi per realizzarlo.
L’impennata dei prezzi di petrolio, rame e stagno, verificatasi nel 2007-2008, è un segnale dell’approssimarsi di questo stato di cose. Tuttavia, la maggior parte degli economisti ha attribuito la causa di questi aumenti di prezzo a speculazioni finanziarie o monetarie. Bisogna però tener presente che le manovre speculative non reggono a lungo se non c’è l’aspettativa di una rarefazione del bene in questione, o comunque di un aumento del suo costo di produzione. Ribattono gli economisti che oggi i prezzi delle materie prime sono in calo, ma è opinione largamente condivisa che ciò avvenga solo perché la crisi economica ne ha ridotto drasticamente la domanda.
I sostenitori dell’attuale assetto economico-produttivo ritengono inoltre che l’esaurimento delle risorse non rinnovabili sarebbe un falso problema, perché la tecnologia sarà comunque capace di risolvere le eventuali difficoltà che verranno a porsi in materia. Per quanto riguarda le fonti di energia (la risorsa più importante), la fusione nucleare rappresenterà la soluzione della questione, ancorché sia un traguardo per ora assai lontano. Altra possibilità è offerta dal nucleare di quarta generazione, che mediante i reattori nucleari veloci autofertilizzanti sarebbe in grado, secondo taluni esperti, di fornire energia pulita in condizioni di accettabile sicurezza. Ma, dopo i fatti di Fukushima, l’opzione nucleare pare tramontata o comunque non praticabile in un prossimo futuro. Ci sono poi le riserve di carbone, ancora imponenti. Oggi, è possibile utilizzare carbone “pulito”, con limitate emissioni di inquinanti. Quanto alla CO2, della quale la combustione del carbone è rilevante fonte, essa può essere catturata e sequestrata in strutture geologiche profonde o negli abissi oceanici. Si tratta, però, di una operazione costosa e complessa di cui, al momento, risultano limitate realizzazioni. Sul lungo periodo, inoltre, rimane oggetto di discussione la capacità di mantenere, con tale modalità, la CO2 stabilmente confinata, evitandone un sia pur lento rilascio, mentre ci sono rischi di fuoriuscite massicce del gas a causa di eventi sismici.
Al presente la risposta al bisogno di energia viene dalla svolta intrapresa negli Stati Uniti nello sfruttamento di fonti non convenzionali di idrocarburi. Nuove tecniche consentono di ricavare gas (shale gas) e petrolio (shale oil) con perforazioni direzionabili e frammentazione idraulica (fracking) delle rocce scistose in cui gli idrocarburi sono contenuti, oppure con lo sfruttamento delle sabbie bituminose. Articoli di giornali e trasmissioni televisive magnificano queste tecniche grazie alle quali sarebbero smentiti i pessimisti, assertori della limitatezza delle risorse.
Le cose stanno così?
Secondo alcuni autorevoli esperti del settore degli idrocarburi, c’è una sopravvalutazione delle aspettative riposte nelle fonti non convenzionali, perché i pozzi di estrazione si esauriscono in tempi brevi (ogni anno va rimpiazzato il 30-50% di quelli in esercizio), ciò che comporta crescenti oneri per il rinnovo degli impianti. Anche trascurando tale aspetto, costituiscono un problema i gravi danni ambientali prodotti da queste tecnologie, dei quali i media ad esse favorevoli non dicono nulla. Si creano infatti situazioni estremamente pericolose: produzione di fanghi contaminati da idrocarburi, da solventi e sostanze tossiche varie; inquinamento delle falde acquifere; immissione in atmosfera di particolato e polveri sottili, nonché rilascio di gas nocivi (fra i quali benzene e toluene). Si tratta quindi di tecnologie difficilmente sostenibili nel lungo periodo, se ai costi di estrazione si aggiungono quelli dei danni ambientali provocati. Ma è a livello planetario che le conseguenze nel tempo possono risultare ancora più negative. James Hansen, illustre fisico e climatologo statunitense, in Tempeste (Edizioni Ambiente), ne dà una rappresentazione drammatica: se si continuasse a impiegare il carbone e se, oltre agli idrocarburi ottenuti dai giacimenti “tradizionali”, si utilizzassero anche quelli in questione, diventerebbe impossibile contenere l’aumento della temperatura terrestre entro limiti accettabili (+2°C). Un tale riscaldamento avrebbe conseguenze catastrofiche innescando sviluppi climatici irreversibili di tipo venusiano. Invece di ricercare nuove fonti di idrocarburi, occorre ridurre drasticamente lo sfruttamento di quelle “tradizionali” e già individuate. La Terra si è riscaldata di 0,85° C nell’ultimo secolo. Per riportare l’assetto climatico entro margini di sicurezza, con livelli atmosferici di CO2 in calo, passando dalle attuali 400 ppm (parti per milione) a 350 ppm a fine XXI secolo, occorrerebbe, secondo Luca Mercalli, una riduzione delle emissioni di CO2 del 6% annuo a partire da ora, accompagnata da una riforestazione equivalente allo stoccaggio di 100 miliardi di tonnellate di carbonio.
Pare quindi evidente che la questione del progressivo esaurimento delle risorse non rinnovabili resti aperta, almeno nel medio periodo, mentre, malgrado la crisi economica in atto, si accentua il consumo di quelle rinnovabili tanto che anticipa sempre più l’overshoot day, il giorno dell’anno in cui risultano già consumate tutte quelle in esso producibili.
Ed ecco la seconda questione in discussione. È reale il cambiamento climatico?
Bjorn Lomborg, docente di statistica, in un noto pamphlet (L’ambientalista scettico. Non è vero che la terra è in pericolo), nega che siano in atto rilevanti modificazioni della temperatura terrestre. Le sue argomentazioni, fondate sulla contestazione delle modalità di rilievo delle temperature e di elaborazione delle misure fatte dai climatologi, hanno trovato largo seguito tra economisti, politici ed esponenti del mondo imprenditoriale. Tuttavia, i molti ghiacciai del pianeta – indifferenti a queste polemiche argomentazioni statistiche – hanno continuato a fondere e a ritirarsi con marcata progressività.
A fronte di recenti devastanti eventi meteorologici, c’è chi ha messo subito le mani avanti per dire che sono fenomeni naturali già accaduti. Certamente nessuno può stabilire un nesso causale stretto tra singolo avvenimento e aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera, ma la frequenza, l’intensità e la localizzazione dei fenomeni indicano che, nel clima, qualche cosa sta mutando: nell’atmosfera c’è più energia rispetto al passato (a causa dell’effetto serra), ed è questa energia aggiuntiva a produrre i fenomeni in questione. Anche in tale caso, dicono gli scettici, non è ancora chiaro se sia l’uomo con le sue attività a determinare l’effetto serra ed i mutamenti climatici o non siano piuttosto cause naturali.
Il recente rapporto sul clima dell’Itergovernmental Panel on Climate Change (pubblicato il 27 settembre 2013), frutto del lavoro di 831 scienziati di varie nazioni, conferma l’esistenza del riscaldamento in atto e fa propria la tesi che a causare i cambiamenti climatici siano le attività dell’uomo. Gli scienziati dell’IPCC invitano a ridurre in maniera sostanziale le emissioni di gas serra per limitare l’aumento di temperatura entro i 2° C rispetto a quella vigente nel periodo preindustriale. Allo scopo, aggiungono che occorre passare rapidamente alle fonti rinnovabili di energia e cambiare gli stili di vita fondati su eccessivi consumi di risorse. Nella seconda parte del rapporto, resa nota nel marzo 2014, si spiega che il rischio di una catastrofe climatica è già reale oggi. Senza un robusto e rapido taglio delle emissioni di CO2, alcuni ecosistemi entreranno presto in crisi con gravissime conseguenze: crescerà il numero (+25 milioni) degli affamati, mentre molte decine di milioni di persone dovranno abbandonare il loro paese.
Malgrado ciò, c’è ancora chi solleva dubbi e invita ad approfondire la questione prima di prendere provvedimenti. Lo si è visto nella recente Conferenza internazionale sui cambiamenti climatici, tenutasi a Varsavia nel novembre 2013, nella quale si è arenata ogni concreta proposta tesa al taglio delle emissioni di CO2, e nessun ostacolo è stato posto all’impiego del carbone, il carburante a cui è imputata la maggiore produzione di gas serra. Nel frattempo, il presidente Obama va in giro per il mondo a promuovere lo shale gas, che con il carbone è quanto di più negativo in materia, come ricorda James Hansen.
Non affrontare il problema o dilazionare le misure necessarie, invocando dubbi, è quanto meno un comportamento poco prudente: infatti quando la realtà dovesse smentire tali dubbi residui, sarebbe probabilmente tardi per correre ai ripari. È il caso di chiedersi come mai, malgrado le molte denunce fatte dagli scienziati e ora anche a fronte di evidenze quali i mutamenti climatici in atto, continui a manifestarsi una diffusa incredulità e talora una vera e propria opera di delegittimazione del lavoro degli esperti.
Alla base di un tale atteggiamento, ci sono varie motivazioni. In primo luogo, il prendere atto del carattere antropogenico dei cambiamenti climatici, assumendo le misure adeguate per contrastarli, comporterebbe un radicale mutamento del sistema economico-produttivo. La sottovalutazione della situazione da parte di quanti (persone, classi sociali, Paesi) sono i beneficiari dell’attuale assetto di potere è pertanto interessata: non intendono mutare niente perché altrimenti rischiano di perdere l’attuale posizione di privilegio. Inoltre, i sistemi di regolazione climatica della biosfera distanziano i tempi tra quando le cause agiscono (produzione di gas serra, deforestazione) e quando se ne registrano gli effetti (mutazioni climatiche), sicché molti stentano a cogliere la connessione tra cause ed effetti. Si aggiunga che l’estrema specializzazione dei vari settori scientifici e tecnologici rende talora difficile a chi opera in essi comprendere la realtà che è sempre più complessa e richiede di essere interpretata da competenze multidisciplinari.
L’incapacità di cogliere l’insieme e l’interconnessione dei fenomeni è diventato un problema di ordine generale. Le varie “crisi” (ambientale, climatica, delle risorse, occupazionale, finanziaria, economica, sociale ecc.) che si registrano nei più diversi ambiti vengono tutte affrontate singolarmente, come se ciascuna fosse indipendente dalle altre, dovuta a cause proprie, e non fossero invece aspetti di un’unica crisi generale di sistema.
“Nessuno cuce una toppa di panno grezzo su un vestito vecchio, altrimenti il rattoppo lo squarcia e si forma uno strappo peggiore” (Marco, cap. 2, versetto 21). L’attuale sistema economico produttivo è simile al vestito vecchio che non sopporta più rattoppi. Forse sarebbe il caso di cominciare a tessere un panno nuovo con cui sostituire l’abito vecchio. |