È di pochi giorni la conversione in legge del “Decreto Lavoro” (D.L. n. 34), prima parte della riforma complessiva per il rilancio dell’occupazione attraverso il Jobs Act proposto dal Governo Renzi.
Mai come in questo periodo sono state dette inesattezze, facendo sì che le polemica politica mettesse una cortina fumogena sui veri contenuti della riforma.
Innanzitutto c’è da chiedersi se era necessaria una ulteriore revisione della normativa, visti i recenti cambiamenti: la legge Biagi/Sacconi e la riforma Fornero.
Una delle principali motivazioni è legata alla disoccupazione. La situazione della disoccupazione in Italia è molto grave: sfiora il 13%, quella giovanile supera di poco il 42%. In Piemonte nel 2013 ha raggiunto il 10,6 % con un aumento dell’1,4% sull’anno precedente, quella giovanile ha raggiunto livelli allarmanti con il 40,6% (fonte Unione Industriale di Torino).
Il decreto dovrebbe essere una risposta, ma non rappresenta certo una rivoluzione, dovremmo invece vederlo come un piccolo tassello in un insieme di riforme che possano rilanciare l’economia del nostro Paese.
La disoccupazione in questi anni, non è aumentata per le presunte rigidità della riforma Fornero sul lavoro, essenzialmente legate a qualche paletto sui contratti a tempo determinato, ad esempio l’intervallo di tempo più lungo fra un’assunzione e l’altra. Limiti peraltro già in parte superati da successive modifiche normative o dalla stessa contrattazione collettiva nazionale, ma è conseguenza essenzialmente del nostro declino industriale e della maggiore competitività di altri Paesi europei e soprattutto orientali.
A questi fenomeni si associa anche un altro elemento della riforma Fornero, non quella del lavoro ma quella pensionistica: l’allungamento dell’età lavorativa e quindi il minor ingresso di giovani nelle aziende, a cui si aggiunge un processo di automazione crescente, spinto dalla ricerca di una ulteriore riduzione dei costi, che in linea di tendenza tende a cancellare ulteriori attività manuali e lavori impiegatizi di tipo operativo. Quindi solo una vera ripresa economica del Paese e una ulteriore riduzione del costo del lavoro, che il Governo Renzi ha avviato con la riduzione del 10% dell’IRAP, può ridare slancio alla ripresa dell’occupazione.
Ma in effetti la nuova riforma che cosa porta?
Una maggiore flessibilità nell’utilizzo dei contratti a tempo determinato e in somministrazione, con l’introduzione dell’acausalità nelle motivazioni, questione che per molti anni ha costituito fonte di contenzioso fra imprese e lavoratori. La possibilità sempre per i contratti a tempo determinato di fare ben 5 proroghe in 36 mesi e per la somministrazione di essere utilizzata con lo stesso datore di lavoro senza limiti. Nei vari passaggi parlamentari si è poi indebolito il tetto del 20% di assunzioni massime a tempo determinato, già derogabile dai CCNL, con delle sanzioni economiche invece che con il precedente obbligo di assumere a tempo indeterminato. Su questo punto la polemica è ancora viva, in particolare da parte delle organizzazioni sindacali.
Sul tema dell’apprendistato è prevalsa molta retorica. Se esiste infatti un contratto di apprendistato deve esserci la formazione, e deve essere fatta bene cercando di agevolare una stretta collaborazione fra imprese ed Enti formativi, invece di fare formazioni fine a se stesse. Dopo le innumerevoli modifiche sul tema è forse opportuno che finalmente si sappiano quali sono le regole da seguire per assumere degli apprendisti e che un’impresa possa farlo senza troppa burocrazia (rispettando comunque un vero piano formativo in forma scritta), ma senza violare le regole e con il massimo supporto degli Enti esterni.
In conclusione serviva dare un segnale di cambiamento sul tema de lavoro, tuttavia il decreto sembra carente su un punto importante, la stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Restando in attesa del Jobs Act, con gli annunciati futuri contratti a tutele crescenti che dovranno anche portare una generale semplificazione dei troppe tipologie di contratti oggi esistenti.
Manca quindi un incentivo alle assunzioni o, meglio, alle trasformazioni dei contratti a tempo determinato in indeterminato. In pratica, raggiunti i 36 mesi massimi, l’impresa dovrebbe essere incentivata ad assumere una persona a tempo determinato, non solo perché già esperta, ma anche perché potrebbe ricevere uno “sconto” contributivo o fiscale.
Alcuni si chiederanno come finanziare questo bonus alle assunzioni. Una prima risposta l’aveva data la “famigerata” legge Fornero, far pagare di più i contributi per i tempi determinati. La flessibilità deve avere comunque un costo. A oggi il contributo aggiuntivo per i tempi determinati è ridicolo, ma rivedendolo potrebbe poi costituire almeno un parte del bonus da restituire alle imprese che assumono.
Infine deve continuare la sfida per debellare le forme di lavoro in nero e ulteriormente limitare le forme di lavoro atipico come le finte partite IVA o i falsi contratti di lavoro a progetto. |