Al centro dell'agenda politica, come è naturale che sia in tempi di crisi, c'è soprattutto la questione lavoro. Tema spinoso, specie in un periodo di emergenza occupazionale cui il governo Renzi risponde, ancora una volta, puntando sulla flessibilità.
Gli ultimi provvedimenti correggono quelli dell'ex ministro del Lavoro, Fornero, allargando le maglie dei contratti a termine sino a tre anni, senza alcun vincolo di conferma dei lavoratori ed eliminando le famose causali, ossia le motivazioni con cui le aziende giustificano la scelta di questa forma contrattuale. Viene altresì cancellata la norma che prevedeva un intervallo obbligatorio di dieci giorni tra la stipula di un contratto e l'altro. Oltre a queste misure di impatto immediato, si intende rivedere i contratti di lavoro, introducendo quello a garanzie crescenti che, in buona sostanza, prevede maggiori tutele (licenziamento, ecc...) in proporzione all'anzianità di servizio.
Ma è davvero la strada giusta? Crediamo francamente di no. Da anni si continua ad allargare l'area della flessibilità contrattuale ottenendo però scarsi risultati sul fronte dell'occupazione e favorendo invece una sempre più marcata precarietà lavorativa, ed esistenziale, che colpisce in particolar modo le fasce più giovani. Come uscire da questa situazione? Due elementi ci consentono di ripensare alla radice l'intero impianto del mondo del lavoro.
Il primo è quello di restituire piena centralità al contratto a tempo indeterminato, concentrando su di esso la riduzione del cuneo fiscale e contributivo. La forma contrattuale stabile, oltre a consentire alle persone di poter organizzare liberamente la propria vita disponendo di un reddito sufficientemente certo, è anche la sola che garantisce al sistema economico un accettabile e duraturo livello di domanda interna. E questo senza contare che la stabilità lavorativa permette alla mano d'opera l'acquisizione di quelle competenze che poi, a ben vedere, sostengono l'impresa nella sua stessa capacità competitiva. La precarietà, non va dimenticato, comporta anche un impoverimento professionale che poi mal si attaglia ad un Paese che vuole far parte delle economie avanzate. Se poi le imprese, per fronteggiare le fluttuazioni del mercato, chiedono legittimamente una certa dose di flessibilità è però altrettanto legittimo che questa esigenza – che in pratica vuol dire godere di maggior libertà contrattuale – venga in qualche modo “pagata”. Ciò può avvenire aumentando per tutte le forme flessibili il salario e i contributi di una certa percentuale rispetto ai livelli previsti nel contratto a tempo indeterminato. Maggiorando i livelli salariali e contributivi cesseranno di avere allora importanza le causali, in quanto il maggior costo delle tipologie contrattuali flessibili farà sì che esse saranno usate solo in caso di effettiva necessità, senza alcun abuso.
Il secondo elemento è il salario orario minimo per legge, soglia al di sotto della quale non si possa scendere per qualsiasi tipo di lavoro svolto con un contratto a tempo indeterminato. Esso farà anche da base per il calcolo delle maggiorazioni retributive (almeno il 20%) spettanti ai contratti flessibili. Il salario minimo esiste da decenni in Francia (lo Smic), di recente è stato introdotto in Germania e sarebbe bene adottarlo senza indugi anche da noi, rappresentando il compenso orario in attuazione dell'art. 36 della Costituzione, che parla di retribuzione dignitosa per il lavoratore e per la sua famiglia.
Sono questi, a nostro avviso, i due punti su cui fondare una politica del lavoro di autentico segno riformista. Ed allora ecco che si misura lo scarto con le scelte operate dal governo che avranno invece l'effetto di accrescere la precarietà, proseguendo in una direzione che non è affatto utile all'economia del Paese e che è frutto di un equivoco di fondo.
Si pensa cioè che la crescita possa avviarsi unicamente puntando sulla flessibilità contrattuale. In realtà sulla decisione da parte delle imprese di assumere del personale ad incidere non sono tanto le regole, più o meno flessibili, del mercato del lavoro quanto le prospettive di sviluppo del sistema economico nel suo insieme. Prospettive legate anche a precise scelte di fondo effettuate dalla politica e che comprendono fattori quali: celeri tempistiche di pagamento nei rapporti commerciali col settore pubblico e tra privati; tempi ragionevoli della giustizia civile per dirimere i contenziosi; un orizzonte energetico a costi contenuti (anche valutando il tanto deprecato nucleare); una chiara definizione di alcuni obiettivi per la ricerca, la tecnologia e l'innovazione nei comparti ritenuti strategici per il nostro futuro.
Alle imprese va offerto un quadro di lungo termine sufficiente stabile per consentir loro di inserirvi, nel modo ritenuto più opportuno, le proprie iniziative economiche. La flessibilità, che poi degenera in precarietà sociale, è invece un'illusione. Un contentino offerto alle aziende nel breve periodo: mediocre surrogato di quella vera politica economica e sociale di cui esse hanno bisogno per competere. |