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Bilanciare comunità e società
 
di Giuseppe Ladetto
 

Oggi, per molti esponenti della politica e della cultura, ogni richiamo al comunitarismo ha un sapore reazionario, poiché è ritenuto frutto del rimpianto per le cose perdute, essendo la comunità una realtà arcaica, ormai superata. La modernità, ci dicono, ha disperso la comunità in favore della società civile. Tuttavia a seguito della crescente insicurezza prodotta dalla globalizzazione e dei guasti sociali riconducibili al neoliberismo, si è affermato un diffuso bisogno di far parte di gruppi stabili o meglio di qualche forma di comunità per ritrovare sicurezza e identità. Di qui la nascita di un neocomunitarismo che mira a creare comunità sorrette da legami solidaristici a corto raggio, in grado di far fronte a esigenze vitali non più soddisfatte dalle politiche statali di welfare, sempre più costose e sovente gestite burocraticamente, senza anima.
A fronte di questo fatto, la cultura liberale denuncia il pericolo costituito dall’affermarsi del fenomeno comunitario per l’intolleranza e l’egoismo che ad esso sarebbero associati. Ci dicono che la comunità soffoca la libertà individuale (il noi comprime l’io) e nel contempo ci contrappone agli “altri”, sempre visti come potenziali fonti di pericolo. Marco Revelli (in Poveri noi) include in questo disegno, ritenuto “reazionario”, l’esaltazione del principio di sussidiarietà e le politiche compassionevoli intessute di personalismo messe in campo da parte di un certo mondo cattolico, per il quale i diritti sociali vengono retrocessi a funzioni morali. Revelli contrappone i diritti, che sono universali, frutto di conquiste, alle risposte selettive e personalizzate proprie del comunitarismo.
La denuncia nei confronti del comunitarismo giunge talora a coinvolgere la stessa famiglia, che certamente rappresenta la comunità di base: alla famiglia si appartiene per nascita; in essa l’aiuto reciproco si genera spontaneamente per i legami affettivi senza necessità di mettere in campo diritti e doveri. La famiglia, viene detto, soffoca la libertà di chi ne fa parte. Si sostiene, inoltre, che, specialmente in Italia, un familismo deteriore, privilegiando sempre e ovunque le relazioni di parentela, impedisce l’affermarsi del senso civico e la costruzione del bene pubblico. Si aggiunge che la famiglia tende a sostituire o a integrare le politiche di welfare rendendo più debole sul piano politico la richiesta di un efficiente sistema universalistico dei diritti. Da queste motivazioni, o pregiudizi ideologici, derivano in tutto l’Occidente quegli interventi legislativi che, con motivazioni di vario ordine, di fatto indeboliscono sempre più l’istituzione familiare.

Ma le cose stanno proprio così? Il tema del confronto tra società e comunità è stato affrontato più volte da Zygmunt Bauman (Ricordo Voglia di comunitàe più recentemente Communitas). Per il celebre sociologo, comunità e società sono forme di relazioni e rapporti di appartenenza coesistenti all’interno del genere umano. L’uomo vive ad un tempo in una comunità (basata sui rapporti interpersonali, sul contatto diretto, sulla vicinanza fisica e morale) e in una società (strutturata su relazioni a distanza che si instaurano tra gli individui e tra singoli e organizzazione pubblica).
La comunità è sempre presente, ci fa sentire sicuri e non ci abbandona; tuttavia essa è esigente: ci impone obbedienza, ci controlla, ci osserva, ci sanziona. La società invece ci rende liberi, ma la società senza comunità sarebbe una realtà dura e disumana. La società diventa sempre più vasta e tende a identificarsi col mondo intero. Così appare incontrollabile e pertanto sconosciuta; resta lontana da noi, ci rende spaesati e incerti; causa insicurezza. La comunità, in ritirata nella società globale, sopravvive nella dimensione locale, nell’ambito in cui si è nati, si è stati educati e in cui si mantengono i legami forti, gli affetti, la cultura condivisa. Da un canto, desideriamo tornare alla comunità per sentirci a casa, protetti e sicuri; d’altro canto le esigenze professionali e lavorative ci portano altrove, mentre si manifesta in noi anche il desiderio di affrancarci da un luogo ristretto per affermare la nostra autonomia.
Oggi c’è chi vede nella rete la possibilità di creare nuove comunità, caratterizzate inoltre dal non essere costrittive come quelle tradizionali. Tuttavia, ci dice Bauman, queste sono solo un surrogato delle vere comunità: danno l’illusione di far parte di un insieme di persone solidali, ma i legami costruiti nella rete sono deboli e fragili. La rete non crea gruppi costituiti da veri amici su cui contare, ci dà libertà ma non sicurezza. In essa tutto è immaginario.
Comunità e società si collocano su piani diversi ma, ci dice Bauman, è necessario contare su entrambi i riferimenti. Abbiamo bisogno sia di libertà sia di sicurezza, quindi di società e di comunità. Bisogna far convivere le due cose cercando un punto di equilibrio.

Quale è questo punto di equilibrio? Certamente dipenderà dalla cultura e dai valori di chi deve definirlo, compito che spetta alle varie forze politiche. In proposito, c’è una considerazione di Bauman che i politici dovrebbero tenere in gran conto.
La crescita della libertà, sia nella sfera economica (propugnata dal liberismo) sia in quella esistenziale (esaltata dal libertarismo), introduce una maggiore dinamicità nella società e di conseguenza produce continui mutamenti, dai quali alcuni risultano favoriti mentre altri sono penalizzati. Tutto ciò causa imprevedibilità e incertezza della condizione di vita e indebolisce la sicurezza in tutti i suoi aspetti. Quando si parla di sicurezza non si intende il solo ordine pubblico, ma soprattutto la certezza e l’affidabilità del lavoro, il poter far conto su mezzi di sostentamento adeguati, la solidità dei legami familiari, il possedere punti di riferimento certi nell’ambiente sociale in cui si vive. Ora, secondo Bauman, la relazione di segno negativo esistente tra libertà e sicurezza (per la quale al crescere dell’una si riduce l’altra) assume rilevanza diversa percorrendo la scala sociale.
Ai vertici, fra i membri dell’élite, la crescita della libertà ha una scarsa incidenza sulla sicurezza. I vip e i possessori di grandi ricchezze hanno poco da temere da parte della violenza diffusa e della criminalità piccola e grande: vivono nei quartieri alti, in ambienti protetti. Anche gli eventi negativi di natura economica, che talora possono coinvolgerli, li toccano marginalmente perché riescono sempre a cadere in piedi, senza danni irrimediabili. Nella vita familiare, affrontano crisi e rotture con noncuranza; anzi questi avvenimenti fanno parte dei loro stili di vita.
Al contrario, al fondo della scala sociale, la crescita della libertà ha effetti dirompenti sulle condizioni di sicurezza. È nei quartieri di periferia degradati che la violenza è maggiormente presente: spaccio di droga, teppismo, disperati che cercano di sopravvivere con ogni mezzo. Sono i lavoratori precari e quelli senza un mestiere qualificato a pagare sempre per primi le conseguenze di ogni evento economico negativo, delle chiusure di attività produttive, dei sempre più frequenti trasferimenti di stabilimenti. Anche nell’ambito delle relazioni familiari, una separazione, per chi guadagna mille o millecinquecento euro al mese, può avere conseguenze pesantissime sulle condizioni di vita di entrambi i membri della coppia e dei figli, se ci sono.
Quindi chi pone l’accento sulla libertà ha come interlocutori privilegiati i ceti sociali abbienti, mentre alle classi popolari sta a cuore principalmente la sicurezza in tutte le sue declinazioni.
È strano che si perda di vista questo fatto rilevante, non solo nel campo neoliberista, ma anche nell’area “progressista”, sempre più influenzata da una cultura “liberal” radicaleggiante, attenta soprattutto ai “nuovi diritti civili”. Non meraviglia pertanto che, in tutta Europa, nelle periferie urbane e tra quanto resta della classe operaia, il voto sovente prenda altre direzioni e cresca l’astensionismo.


maurizio perinetti - 2014-04-02
Bella riflessione, che condivido. Grazie.