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Chiusa una fase, se ne apre un’altra
 
di Giovanni Bianchi
 

Alcuni osservatori si sono stupiti della rapidità con cui la Direzione nazionale del Partito Democratico ha deliberato nei giorni scorsi l’adesione al Partito del Socialismo europeo: la sorpresa evidentemente derivava dal ricordo delle lunghe, aspre e tediose discussioni svoltesi dal 2007 in poi – ossia dall’atto della costituzione del PD – sulla collocazione europea del partito, che spesso veniva evocata come una sorta di giudizio di Dio sull’autenticità o meno della vocazione riformista e progressista del nuovo soggetto politico.
La ferocia di queste discussioni era significativa dell’autoreferenzialità di un ceto politico che, nell’infuriare di una crisi economica senza precedenti, considerava dirimente ai fini del dibattito pubblico, ossia in presenza di un’opinione pubblica in tutt’altre faccende affaccendata, prendere posizione sull’adesione o meno ad un soggetto politico transnazionale la cui esistenza è in Italia ignota ai più.
D’altro canto, che una revisione ideologica della sinistra socialdemocratica tradizionale fosse necessaria lo aveva teorizzato per prima la SPD tedesca, ossia il più antico partito politico del nostro Continente, fondato sotto gli auspici diretti di di Marx ed Engels. Era stato proprio Sigmar Gabriel, attuale Vicecancelliere federale, a stigmatizzare l’immobilismo e la stanchezza ideologica dell’Internazionale socialista di cui il suo partito era stato fondatore in epoca bismarckiana, avanzando la proposta di un’Alleanza progressista mondiale in cui per la prima volta accanto ai partiti socialdemocratici siedono a pieno titolo soggetti progressisti di matrice non marxista come il Partito del Congresso indiano e il Partito Democratico statunitense (e quello italiano, beninteso). Non è un caso del resto che con l’ingresso del PD il PSE abbia assunto il nome di Partito socialista e democratico europeo.
Più in generale, nella rapidità della scelta del PD ha pesato l’approccio pragmatico e post ideologico di Matteo Renzi, il quale dovendo guidare il Partito ed il Governo in un anno complicato che sarà segnato prima dalle elezioni per il Parlamento di Strasburgo (con la buona possibilità di una vittoria di Martin Schulz come primo Presidente della Commissione eletto direttamente) e poi dal semestre italiano di presidenza del Consiglio dei Ministri europeo, ha ritenuto che questi fossero due ottimi motivi per inserire il PD, partito guida dell’attuale governo, in una posizione chiave in quella che potrebbe essere la prima forza politica europea.
Ma uno degli effetti da non sottovalutare di questo passaggio epocale gestito sottotono è l’azzeramento di due ipoteche ideologiche che pesavano sul PD fin dalla nascita.
La prima, come ha rilevato con finezza il direttore del “Regno” Gianfranco Brunelli, è quella di quel pensiero radicale progressista e neo-azionista di cui è portabandiera il fondatore di “Repubblica” Eugenio Scalfari, che di fatto ha esercitato la sua egemonia sulla sinistra italiana negli ultimi vent’anni soprattutto a causa del venir meno della coscienza identitaria dei soggetti che ne formavano il nerbo, in particolare gli ex comunisti e gli ex popolari. Renzi, che a Scalfari non sta simpatico, rappresenta una rottura di questa egemonia perché il consenso di quel mondo non lo interessa, e nello stesso tempo non vive il suo passato politico come una prigione e ancor meno come una colpa da espiare. D’altro canto, è lo stesso meccanismo neo-azionista ad essersi logorato dopo due decenni di battaglie antiberlusconiane, polarizzandosi fra un arroccamento intorno alle figure istituzionali e un ribellismo moralistico che appaiono parimenti astratti e slegati dalla realtà delle cose, come dimostra la polemica alquanto autocentrata sorta fra lo stesso Scalfari e Barbara Spinelli.
Ancor più importante è il definitivo superamento del meccanismo ricattatorio per cui le identità del passato, specie quella popolare, venivano vissute come una sorta di indefinita garanzia di partecipazione alla spartizione di posti e prebende, come dimostra la reazione irosa di alcuni che su questo schemino hanno edificato una bella carriera. La riduzione della complessità di un pensiero politico ricco ed articolato come quello dei cattolici democratici a due o tre slogan per lo più di sapore interdittivo su materie come scuola, unioni di fatto, procreazione assistita e poco altro equivale di fatto a regalare alla destra una sorta di egemonia sulla presenza pubblica dei credenti poiché ne acquisisce il messaggio di fondo di natura conservatrice. Un errore in se stesso, e a maggior ragione in presenza di un Papa che dice apertis verbis di considerare incomprensibile la stessa espressione “valori non negoziabili”, sfidando i credenti che vogliono entrare nella vita pubblica a trovare nuove modalità espressive.
In verità, e lo ha ammesso in una sua nota anche un grande combattente come Savino Pezzotta, la prospettiva di un partito politico di ispirazione cristiana che non sia solo parassitismo e residualità di ceti dirigenti allo sbando è oggi chiusa, e lo sarà per molti anni. Non è chiusa invece la prospettiva di un pensiero politico dei cattolici democratici che tragga sicuramente ispirazione dall’insegnamento sociale della Chiesa ma che sappia misurarsi con le sfide del tempo presente, quelle che toccano da vicino e nel profondo l’umanità sofferente. E su questo c’è molto lavoro da fare

(tratto da: www.circolidossetti.it)


Oreste M. calliano - 2014-03-10
Mi pare che il dibattito tra i cattolici "reduci" da esperienze insoddisfacenti sia sul piano culturale che politico (DS, asinello, ulivo, PD) in quanto figlie del bipolarismo "forzato" imposto dagli innamorati del bipartitismo americano, evidenzi che tale scelta non solo non ha prodotto una cultura dello sviluppo responsabile in Italia, ma ha "forzato" alleanze rivelatesi poi foriere di contrapposizioni falsamente virulente e di coalizioni rivelatesi poi assai litigiose dopo le risicate vittorie. A mio parere il bipolarismo, figlio dell'esperienza inglese (chi sta a destra dello speaker, tories, e chi sta a sinistra, whigs) era funzionale ad una società in cui le risorse affluenti vengono ripartite o investendole in industrializzazione foriera di sviluppo (conservatori) o redistribuendole con particolare attenzione ai ceti meno abbienti (progressisti). In una fase in cui le risorse sono scarse le scelte politiche sono "tragiche" tese cioè a far accettare sacrifici equamente distribuiti oppure imposti in particolare ai ceti abbienti. Se è al potere la "destra" e fa scelte difficili, perde i consensi e le elezioni e viene sostituita dalla "sinistra" che dovrà fare scelte analoghe, anche se linguisticamente cammuffate e retoricamente dichiarate innovative. Entrambe le coalizioni tendono quindi ad ottenere i consensi del centro proclamandosi però alternative e quindi polarizzando l'elettorato. Ciò suscita reazioni di non piena rappresentanza, di sfiducia o peggio di protesta violenta. Invece un sistema almeno tripolare, in cui formazioni intermedie di volta in volta si alleano con le "ali", tende a creare politiche di mediazione, di relativo consenso alle scelte necessarie, ma socilmente impopolari, trasformando questa democrazia "muscolare" o "competitiva" (si scopiazza purtroppo il linguaggio US parlando di mercato elettorale e di lotta darwiniana per sopraffare ad ogni costo il "nemico" politico) in una dialettica che tende alla sintesi tra posizioni inizialmente divergenti, ma costrette a convergere. In Germania è così (SPD, UDC, PLD, Linke), al Parlamento europeo è così (Partito socialista europeo, Alleanza liberal-democratica europea, Partito popolare europeo, altri) e le due realtà evidenziano che panorami più ampi possono consentire scelte anche difficili. Il PPE probabilmente ne avrà nei prossimi anni alcune, tra cui quella di svolgere un ruolo trainante, spesso contrastante con quello delle classi dirigenti nazionali, nel processo di ridefinizione della solidarietà economica e della piena integrazione politica europea. Credo che occorra, come ha evidenziato il sociologo De Masi nel suo recente "Mappa mundi. Modelli di vita per una società senza orientamento", ripartire da un serio lavoro culturale che ridefinisca i paradigmi e attualizzi i valori storicamente fondanti della nostra società occidentale, in particolare europea. Partendo dal linguaggio: esistono conservatori (mantenere lo status quo) e progressisti (avanzare comunque anche a costo di schiacciare valori e risorse ambientali tradizionali) sia a destra che a sinistra. Mancano forse gli innovatori responsabili. I cattolici conciliari possono svolgere un ruolo significativo, uniti ad altre componenti culturalmente responsabili.
Carlo Baviera - 2014-03-08
Condivido qunto sottolinea il Prof. Ciravegna, e aggiungo che resta comunque la questione che il cosiddetto cristianesimo popolare o cattolicesimo democratico non può scomparire in un soggetto che, anche nelle parole di Renzi, non sarebbe altro che un contenitore delle storie della sola esclusiva storia delle sinistre (seppur democratiche e che hanno avuto fior di personalità cattoliche). Se il PD è il 4° tempo del PCI è un conto, se è la continuazione dell'Ulivo è un altro. E in questo ultimo caso deve, anche in Europa trovare soluzioni per una formazione nuova, che tenga conto anche della traduzione politica della Dottrina Sociale, e non semplicemente qualcosa di liberal democratico. Le sfide nuove, economiche, ambientali, della pace, richiedono una presenza fortemente innovativa
Daniele Ciravegna - 2014-03-07
Piuttosto che dire che "non è chiusa la prospettiva di un pensiero politico dei cattolici democratici che tragga sicuramente ispirazione dall'insegnamento sociale della Chiesa", bisognerebbe dire che questa prospettiva è ancora largamente da aprire, così come è ancora largamente da aprire, da parte della Chiesa stessa, la messa in opera pastorale dei principi del medesimo insegnamento. A parte la grancassa che viene puntualmente suonata in occasione dell'uscita delle lettere encicliche e degli altri documenti papali in tema di dottrina sociale, l'applicazione pastorale della stessa non è sempre poi così efficace, quasi che la Dottrina sociale della Chiesa non sia così parte integrante della concezione cristiana della vita; il cui insegnamento e la cui diffusione non siano così parte della missione evangelizzatrice della Chiesa, tale da rendere evidente che senza una pastorale basata integralmente e profondamentre sulla Dottrina sociale della Ciesa – si può dire – avremmo meno Chiesa. Quanto all'osservazione che Papa Francesco "dica apertamente di considerare incomprensibile la stessa espressione 'valori non negoziabili'", la mia convinzione è che, così dicendo, si forzi non poco la mano al Papa. La supposta perplessità nei riguardi della solidità dei "valori non negoziabili" non riguarderà certamente i quattro capisaldi della Dottrina sociale della Chiesa: dignità della persona, bene comune, solidarietà e sussidiarietà. Da questi principi teologici discendono i principi etici di un partito che voglia essere cristiano, composto da persone che hanno un approccio etico alla politica in quanto hanno principi etici, visioni e valori condivisi, essenziali per esprimere una chiara linea politica; senza i quali rischia di diventare, un mero centro di potere. In effetti, il motivo di fondo dell’attuale crisi della politica nel nostro Paese è che, per lo meno da un trentennio, i partiti hanno cessato di essere laboratori culturali per lo sviluppo di obiettivi eticamente corretti, per creare idee, nonché di essere poli di formazione in questa direzione, e si sono trasformati in centri di potere scarsi per tensione etica. Ovviamente il partito non può fermarsi allo stadio di luogo di discussione sugli obiettivi che deve prefigurarsi, di produzione di idee. Deve anche saperli realizzare. Non è un centro culturale solamente; dev’essere anche un centro di programmazione che trasforma obiettivi e idee in programmi e che trasforma i programmi in azioni di governo. Se non ha la maggioranza all’interno della comunità e delle istituzioni dovrà anche saper mediare con le posizioni degli altri partiti con i quali si decide o si è costretti a cooperare (e non deve comunque essere una mediazione che porti alla negazione integrale dei propri obiettivi di fondo). Si dice che la politica è l’arte della mediazione. Questo sì al livello di operatività; non già a livello di elaborazione di principi e obiettivi!