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La natura dell’essere umano
 
di Giuseppe Ladetto
 

Lo sviluppo tecnico-scientifico e i progressi delle biotecnologie interessano sempre di più l’ambiente naturale in cui viviamo e la nostra stessa struttura fisica di esseri umani. Di qui la centralità che, nella riflessione contemporanea, vengono ad assumere la bioetica e le differenti concezioni sulla natura dell’essere umano. In materia, il dibattito si è polarizzato su due posizioni, in larga misura contrapposte: una comunemente ritenuta di matrice religiosa e l’altra impropriamente definita “laica”. Dico impropriamente perché quel pensiero che si autodefinisce “laico” (ma è targato come “laicista” dai suoi avversari) è segnato da una forte componente ideologica. Di questo pensiero, credo sia utile descriverne gli elementi distintivi. A tale fine, faccio riferimento al volume di Giovanni Fornero Bioetica cattolica e bioetica laica, che li presenta con chiarezza e onestà intellettuale, come riconosciuto in recensioni su media di vari orientamenti.
Le posizioni “laiche”, pur nella diversità dei riferimenti teorici, convergono su un nucleo di idee comuni.
I) La morale è ritenuta una costruzione totalmente umana, essendo l’uomo la fonte delle norme etiche (e non Dio o l’ordine naturale che ne rispecchia la volontà). L’uomo stabilisce, attraverso le proprie scelte individuali o collettive, le norme da seguire e si riserva la facoltà di cambiarle con delle nuove, se ritenute più appropriate alla situazione in cui si trova ad agire.
II) La natura non è ritenuta una realtà immutabile che rispecchia la sapienza divina, né un serbatoio di valori e di fini da cui ricavare regole di comportamento, ma è considerata un prodotto storico culturale. La storia è fatta di continui interventi tecnologici dell’uomo sul mondo che lo circonda, e non è possibile quindi distinguere ciò che è naturale da ciò che non lo è. La natura dell’uomo consiste nel non avere natura e nel determinare la propria storia attraverso le proprie scelte.
III) La bioetica “laica” si è storicamente configurata come bioetica della qualità della vita: a possedere pregio non è la vita in quanto tale, ma è una vita degna di essere vissuta, che possa per la sua qualità dirsi umana. Essa subordina il valore della vita alla sua qualità. Il riferimento alla qualità della vita funge, per il laico, da criterio di condotta e da principio normativo nei confronti delle situazioni sociali ed esistenziali in cui vengono a trovarsi gli individui nella realtà odierna.
IV) Altro principio proclamato è quello della disponibilità della vita: la nostra specie, utilizzando gli strumenti offerti dalle scoperte biotecnologiche, potrà, se ritenuto opportuno, manipolare radicalmente se stessa, tanto da originare una specie nuova. Viene, pertanto, accettata l’eugenetica (attuata selezionando o manipolando gli embrioni) purché essa non sia gestita autoritariamente dallo Stato.
V) I seguaci del paradigma laico insistono tutti, a vario titolo, sulla libertà e sull’autodeterminazione degli individui, cioè sulla loro capacità di autoplasmarsi secondo un modello o stile di vita da loro stessi scelto. Essi riconoscono ai singoli la piena libertà di amministrare la propria vita e la propria morte, avendo come unico dovere quello di salvaguardare gli spazi e le possibilità di scelta altrui.
Ora vediamo dove, a mio parere, conducono tali affermazioni.
La bioetica “laica” subordina il valore della vita alla sua qualità: quindi, per essa, non tutte le vite delle persone hanno uguale valore. Si sottolinea che il concetto di qualità della vita si rivela necessario per affrontare molti problemi sollevati dalla pratica medica. Ritengo che si alluda alle decisioni da prendere nei confronti di malati terminali o in coma ritenuto irreversibile. Temo, tuttavia, che un tale criterio possa venire adottato anche per stabilire a quali soggetti dare priorità nel caso di trapianti di organi o di urgenze mediche. Infatti, se in tale ambito, può essere giusto privilegiare un giovane rispetto a un anziano, che ha una minore attesa di vita, non si può dire altrettanto di un atleta o di uno scienziato rispetto a un portatore di handicap fisico o a un ritardato mentale. Ma se si definisce lo status di un soggetto in base al grado di possesso dei requisiti necessari a definire una supposta vita di qualità, ne scaturisce inevitabilmente una graduatoria dei diritti, poiché le persone posseggono tali requisiti in diversa misura: non solo ne risulta legittimata la soppressione dei gravi disabili e degli anziani mentalmente compromessi, ma si finisce per dare vita a una società gerarchica, o addirittura di caste, sulla base di requisiti biologici.
Si obietta da parte “laica” che, a far da argine a tali possibili derive negative, ci sono i vincoli imposti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Tuttavia, diventa difficile capire a chi tali diritti si riferiscano se la nostra specie, utilizzando gli strumenti offerti dalle scoperte biotecnologiche, potrà manipolare radicalmente se stessa tanto da originare una specie nuova. Anzi, mi permetto di dire, più specie nuove (poiché è auspicata una piena libertà nell’accesso alle pratiche eugenetiche e nella loro gestione) che dovranno convivere con la specie attuale (perché è presumibile che non tutti intendano seguire questo cammino).
È quindi lo stesso concetto di essere umano che viene a dissolversi. La negazione della natura umana o la sua riduzione a una dimensione esclusivamente storico-culturale, come asserito dal pensiero “laico” dominante, espone al pericolo che siano i detentori del potere (politico, scientifico, tecnologico ecc.) a definire chi è titolare di diritti e a stabilire chi è un essere umano o meno.
Per salvaguardare quindi il carattere universale dei diritti delle persone è necessario individuarne la fonte in un concetto di “natura umana”, comprensivo delle caratteristiche tipiche, immutabili e condivise di tutti gli esseri umani. Ma il pensiero “laico” nega l’esistenza stessa di una “natura umana”.
Affronto l’argomento “natura umana” da agnostico in tema religioso.
Ha scritto Francis Fukuyama (in L’uomo oltre l’uomo) che la visione antropologica che sottende il pensiero liberale appare oggi quanto meno inadeguata. La biologia evolutiva infatti tende a dimostrare che gli uomini sono per natura creature sociali e politiche (e non individui solitari ed egocentrici), e che comportamenti geneticamente orientati influenzano i fatti sociali. Alcuni schemi di comportamento sono molto più diffusi e condivisi di quanto non si ritenesse in passato, mentre le culture riflettono requisiti sociali comuni. Nel corso del processo evolutivo, ha aggiunto Fukuyama, si è verificata un’importante discontinuità qualitativa, evidente anche a chi non condivide la tesi di un intervento divino. Questo salto qualitativo consiste nella fusione in un insieme unico di tutti gli elementi costitutivi della tipicità umana: l’intera gamma delle emozioni e dei sentimenti, il linguaggio e la ragione. Essa differenzia l’uomo dai suoi immediati predecessori e dà fondamento alla dignità umana.
Michael S. Gazzanica, direttore del Center of Cognitive Neuroscience del Dartmouth College, (in La mente etica), ha scritto che “l’insieme di norme etiche e morali che derivano dai tradizionali sistemi politici e religiosi hanno spesso un modo comune di discriminare tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. La ragione di questo potrebbe essere che, nella nostra specie, la mente possiede una serie interna di possibili reazioni alle situazioni di vita, reazioni alle quali solo in seguito viene attribuita una moralità”. Del resto lo aveva già compreso il grande etologo Konrad Lorenz quando ha affermato che “la legge morale che è in noi si è formata nel divenire naturale”. C’è quindi una natura umana e c’è una legge naturale che ci consente di distinguere il bene dal male. Risulta, inoltre, che, per natura, siamo soggetti sociali sempre in relazione con gli altri e non individui chiusi in se stessi solo attenti ad “autoplasmarsi”.
Perché mettere in campo questo tema? In primo luogo, per smentire che su di esso si assista a una disputa fra pensiero razionale e dogmatismo cattolico. Si tratta invece di un confronto aspro tra una concezione permissiva, fondata su una morale utilitaristica, e concezioni di varia ispirazione che individuano aspetti della natura umana (sia essa frutto di creazione divina o il risultato del processo evolutivo) non assoggettabili al criterio dell’utile e a velleitarie manipolazioni tecnologiche.
Benedetto XVI ha auspicato intese, su specifici temi, tra quanti – anche se non credenti o di altra fede – manifestano una comune o similare visione antropologica che riconosce l’esistenza di una natura umana per la quale l’uomo è un essere sociale, sempre in relazione con altri; porta entro di sé le norme etiche che lo rendono capace di distinguere il bene dal male e di assumere responsabilità nei confronti della comunità entro la quale si realizza compiutamente come persona.
Mi sembra importante insistere su questo tema perché da più parti, travisando talora anche le parole di papa Francesco, si cerca di accantonarlo giudicandolo irrilevante o comunque secondario rispetto alle problematiche di ordine sociale. Tale questione rimane invece centrale perché a minacciare il mondo (ambiente, ecosistemi, natura umana, convivenza sociale) è proprio l’hybris, alla base del pensiero oggi dominante, che si traduce nel volere tutto e quindi nel rifiuto di ogni limite. Ne è ultimo esempio la teoria del “gender” che si propone di superare la differenza biologica tra uomini e donne.
Il collegamento stretto tra questione antropologica e tutela dell’ambiente è stato ben individuato da Joseph Ratzinger, già prima di salire al soglio pontifico, nel volume Europa i suoi fondamenti oggi e domani. Egli ha scritto, infatti, che “nel mondo attuale si sta affermando il principio per il quale è lecito fare tutto ciò che tecnicamente si è in grado di fare. Lo sfruttamento della natura, che vi è connesso, diventa sempre più un problema a motivo dei disagi ambientali che stanno diventando sempre più drammatici. La trasformazione della natura coinvolge lo stesso essere umano che non deve più essere generato irrazionalmente, ma prodotto razionalmente: così l’uomo dispone dell’uomo ridotto a prodotto e gli esemplari imperfetti vanno scartati”.
Oggi, più che mai, occorre tenere insieme le due questioni (tutela dell’ecosistema Terra e difesa della natura umana e quindi dell’uomo), mentre sono ancora troppi a non comprendere questa esigenza. Caso esemplare è quello di quei molti ambientalisti che denunciano la devastazione dell’ambiente ma, nei confronti degli esseri umani, approvano tecniche manipolative della riproduzione e interventi sostanzialmente di ordine eugenetico. Sul fronte opposto, ci sono quanti intendono, grazie alla scienza e alla tecnologia, realizzare il dominio assoluto dell’uomo sulla natura, considerata come un oggetto di per sé privo di qualsiasi contenuto degno di rispetto. Ma è sempre più evidente che l’uomo non salverà se stesso se non salvaguarderà l’intero creato, di cui è parte, e del quale può considerarsi custode, ma non certo padrone.


Oreste M. Calliano - 2014-03-10
Caro Beppe, come ti dissi più volte la società che il neocapitalismo (industriale e finanziario) ha sviluppato è figlia del narcisismo che tempo fa Lasch aveva evidenziato come "matrice" dell'educazione e poi della "sconfitta" di una intera generazione prima in US poi in Europa. Come ben disse Castells la società capitalista è figlia dei valori della società agricola: del contadino che duramente ha prodotto il suo raccolto, dell'operaio fiero del suo "capolavoro", del professionista limitato dal dovere di correttezza, del magistrato di cui non si può sospettare come della moglie di Cesare. Non sappiamo che società e che valori produrranno le generazioni nate nel neocapitalismo. Temo che occorra ripartire dal "fallimento" di una generazione (o forse di due) decostruendone il linguaggio, le pratiche, i presunti valori e ricostruire. Se la velocità con cui si va verso l'ignoto ce ne darà il tempo. In ogni caso è nostro dovere, di maestri e padri di famiglia, iniziare.
Aldo Cantoni - 2014-03-06
Caro Beppe, il tuo ragionamento, del tutto condivisibile, dimostra che la ragione umana, quando non è condizionata da pregiudizi ideologici, è in grado di avvicinarsi alla verità oggettiva e ciò a prescindere dal credo religioso. Quest' ultimo a sua volta, quando non è strumentalmente fanatico, incoraggia la ricerca razionale della verità ben sapendo che ragione e fede concorrono con metodi diversi alla scoperta finale dell' unica Verità. (Cfr. Fides et ratio)