Se in politica la forma è ancora sostanza (i prossimi mesi ci diranno se è stata rottamata anche questa vecchia regola), la modalità con cui si realizza l’avvento di Matteo Renzi alla premiership d’Italia è tale da immaginarne un percorso complicato.
Vedremo (iniziando magari dalla lista dei ministri) se “oltre la rottamazione” c’è la restaurazione, oppure siamo davvero di fronte al “cambia verso”.
Analizzando la situazione senza lo spirito delle tifoserie o del conformismo che in queste ore si sparge su Roma come l’acqua durante un’alluvione, per ora non si può non constatare che di colpo finisce in soffitta (o in archivio) la carica rivoluzionaria e l’estetica movimentista che furono ad un tempo il propellente e il cemento dell’esperienza renziana della prima e della seconda ora; lanciata poi a catapulta dall’esito delle elezioni di febbraio e dal successivo infarto democratico dei due terribili mesi di marzo e aprile, che solo il governo Letta riuscì a sbloccare. E senza il quale la XVII legislatura sarebbe drammaticamente morta nella culla, con effetti forse letali per la democrazia rappresentativa.
Per la più classica delle eterogenesi dei fini, tutta la mistica rivoluzionaria leopoldina, l’estetica dei “piombini”, il furore iconoclasta degli “occupyPd”, gli impegni solenni del “cambiaverso” (“mai più inciuci”, “a Palazzo Chigi solo con il voto popolare”, “archiviamo il governo di Formigoni e Giovanardi” e via discorrendo) finisce col produrre, sul piano politico, il più classico dei giochi di palazzo. Una crisi extraparlamentare, nel più puro stile Prima Repubblica (anzi no, la DC aveva più stile, ammettiamolo, perché faceva cadere il Primo Ministro con un incidente parlamentare, non con una sfiducia palese della direzione). Una sostituzione in corsa del capo, senza passare dal via, ossia dalle urne, ma con un’operazione che in altri tempi sarebbe stata bollata irrimediabilmente come “partitocratica”. Una perdita dell’età dell’innocenza per una generazione intera, che si scopre improvvisamente orfana della rivoluzione, e quasi attonita nel dover assistere che tutti gli sforzi sono serviti solo per vedere associato il proprio paladino a quel Massimo D’Alema indicato in tutti gli angoli come il simbolo dell’inciucismo, del machiavellismo e del coalizionismo da spazzare via con il lavacro delle primarie, con la religione della vocazione maggioritaria e con il richiamo salvifico a un bipolarismo che appare sempre più come quella rivoluzione proletaria che in altri tempi doveva avvenire ma che non avveniva mai!
A cui si aggiunge un fin troppo sospetto quasi unanimismo del partito.
È possibile, anzi probabile che terminata la fase “rivoluzionaria” ora si assista al riflusso interno al PD. Le stesse voci che ieri urlavano il “crucifige” di fronte all’empia candidatura di Franco Marini o al governo di Enrico Letta, in quanto figli del Palazzo e degli accordi di vertice lontani dalla base e dal popolo, ora restano afone, di fronte alla medesima meccanica che produce il Renzi 1. Un silenzio che si suddivide tra chi, pago del risultato ottenuto, ora si concentra su altro e chi, sbalordito per il repentino cambio di scenario, deve metabolizzare e realizzare che il PD del 2014 non è molto dissimile dal PD del 2008, o dall’Ulivo del 1998, e cioè un Crono sempre pronto a divorare i propri figli.
Chi non aveva partecipato alla fase “rivoluzionaria”, come pezzi significativi dei cuperliani, utilizzerà la fase del riflusso interno per tentare di rioccupare le casematte del Partito, illudendosi che le giovani truppe renziane siano troppo occupate nell’assalto al Palazzo d’Inverno e quindi disponibili a riaprire le porte della chiesa ai chierici appena scacciati dal lavacro popolare delle primarie dell’8 dicembre. Si vedrà se le porte verranno riaperte, o se invece ci saranno i sacrestani a mantenere ben serrate le porte della cattedrale del Nazareno.
Sin qui le problematiche della fase interna del PD, che Renzi ha ben ponderato e che ritiene in cuor suo di risolvere semplicemente mantenendo da Palazzo Chigi lo stesso ritmo sincopato e frenetico che gli ha consentito sin qui di mettere in fuorigioco tutti i suoi oppositori.
Restano sul campo però due questioni “esterne”, i cui riflessi potrebbero saldare la delusione della mancata rivoluzione a una potenziale e strutturale deficienza dell’azione di governo.
La prima. Il PD con questa vicenda ritorna, dopo la fatica dei dieci mesi di Letta che gli avevano ridato un’aura di credibilità istituzionale, a essere lo stesso coacervo impazzito dello scorso aprile.
L’unanimismo tattico della direzione non tragga in inganno. Pezzi interni dell’opinione pubblica, anche internazionale, assistono tra lo sbigottito e il sorpreso allo spettacolo di un partito che in un anno ha bruciato – come in un “sabba” medioevale – quattro leadership: Marini, Prodi, Bersani e Letta. A cui vanno aggiunti i “rottamati” Veltroni (fondatore e primo segretario) e D’Alema. Un PD che ora presenta Renzi non come la punta avanzata di un processo, ma come l’ultima, disperata spiaggia. Altro che Blair dopo il congresso di Brighton: il segretario arriva a Palazzo Chigi non all’insegna di una “rivoluzione”, ma per sua stessa ammissione come unico espediente contro la “palude”. Logico sillogismo: fallisse lui, fallirebbe l’idea stessa del PD. E siccome il carico riformista messo sul tavolo non è propriamente banale (ripartenza dell’economia, fine della burocrazia, modifica di 55 articoli della Costituzione, legge elettorale, riforma dei regolamenti parlamentari) resta da vedere se questo clima da “ultima occasione” sarà il necessario cemento dell’azione di governo oppure ne costituirà il limite oggettivo. Di certo, è l’ultima occasione che il PD ha di dimostrare che è sul serio un partito politico, e non un singolare esperimento sociologico da far studiare nelle facoltà di tutto il mondo, anche per la propria singolare capacità di andare in tilt in ogni occasione topica nella quale deve assumersi una responsabilità decisiva (con l’effetto conseguente di risollevare da terra ogni volta l’avversario che aveva abbattuto, e che da vent’anni ha sempre un unico nome e cognome).
La seconda. È finita la fase della tattica, e inizia quella della strategia. Sin qui sul piano della tattica (e della velocità) Renzi è stato al tempo stesso spregiudicato e vincente. Ha piegato pressoché ogni cosa all’espediente tattico per raggiungere l’obiettivo vero, che aveva in mente fin dall’inizio. Visti gli esiti, tutti i passaggi di volta in volta presentati come ultimativi, essenziali e fondativi addirittura dell’identità di un partito (le primarie, la riforma della legge elettorale, la modifica della Costituzione) si dipanano in realtà come funzionali e strumentali gradini di una scala che oggi conduce direttamente al primo piano di Palazzo Chigi. Sia pure passando dalla porta di servizio lato Montecitorio piuttosto che dal portone principale lato elezioni a suffragio universale diretto. Ora la tattica deve lasciare il posto alla strategia, e qui arrivano i primi scogli. Anzitutto fatti da una natura della base parlamentare del tutto analoga e uguale a quella che sorreggeva il governo Letta. E non si capisce, se non si vuole conferire al volitivo piglio del segretario-presidente una potenza politica eccessiva, come sia possibile mutare la radice politica di una coalizione dove insieme al PD persistono (in posizione numericamente determinante sul piano parlamentare) soggetti politici dichiaratamente di centrodestra (NCD di Alfano), altri che in Europa staranno con i conservatori del PPE (tutta la galassia centrista) ai quali, con qualche entusiasmo giovanilista un po’ naif, si immagina di appiccicare spezzoni di grillini in libera uscita e nelle idee di qualcuno anche una costola di SEL pronta a correre in soccorso al nuovo inquilino di Palazzo Chigi. Come se fosse possibile, al solo annuncio dell’epifania renziana, tenere sotto un unico cappello politico chi in Europa tra un paio di mesi poi si dividerà nel sostenere chi il riformista Schulz, chi il compagno Tsipras, chi la signora Merkel e chi magari si riconoscerebbe nel coacervo antieuropeista che veleggia tra Grillo, la signora Le Pen, Salvini e i Pirati tedeschi.
Certamente Renzi non vuole fare del proprio governo una riedizione, in forma surrogatoria e quasi paradossale, dell’Unione di Prodi. Essendo stata però la discussione sulla “staffetta” tutta centrata non sui contenuti o sugli schieramenti ma solo sulla sostituzione dell’uno con l’altro, la politica presto si incaricherà di far ritornare al pettine i nodi insoluti che la frenetica cavalcata di queste settimane (a metà strada tra l’arrivo del “7° cavalleggeri” e l’assedio di Little Big Horn) non si è peritata di sciogliere. E cioè che il Renzi 1 sarà un governo di coalizione esattamente come il Letta 1, privo di una propria coesione politica omogenea e legato esclusivamente alla contingenza di un programma di governo tanto impegnativo da richiedere qualcosa di più di una semplice sommatoria aritmetica in sede parlamentare, affidata magari in qualche caso solo alla dinamica della sopravvivenza.
Ultima, conclusiva osservazione. Sono legato da anni all’esperienza politica di Enrico Letta, e ho a lungo riflettuto su come avessi potuto commentare con riferimento alla sua persona – con lucidità, raziocinio e analisi come lui ci ha insegnato a fare – la situazione politica di questi giorni, di queste ore, fino all’epilogo finale. Poi le mie riflessioni hanno lasciato il passo ai limiti oggettivi e personali, tali da ritenere che sia meglio affidare ad altri decisamente migliori il compito di trovare le parole giuste in questi momenti. E per questo credo di potere e di dovere indirizzare a lui, nella assoluta certezza di esprimere e rappresentare l’opinione e il sentimento di tante democratiche e tanti democratici, la frase che Mino Martinazzoli rivolse ai giovani democristiani più di vent’anni fa, e che mi sembrano il miglior suggello dei nostri sentimenti e delle nostre volontà: “Per noi vincere non è necessario. Necessario è credere. Solo se noi crediamo e dimostriamo le nostre ragioni, allora possiamo tornare a vincere. Dobbiamo farlo non solo per noi, ma per quella forza, quei valori, quella risorsa che sono le idee che pretendiamo siano sempre meno in esilio nel partito”.
Grazie Enrico. |