Qualche tempo fa, Mattia Feltri, recensendo su “Tuttolibri” un libro di Enrico Berlinguer (La passione non è finita) recentemente riproposto da Einaudi, attribuisce al celebre segretario del PCI il vizio di andare a sbattere contro la realtà.
Contro la realtà sono stati i suoi principali obiettivi politici: immaginare (come fece anche Michail Gorbaciov) un’applicazione moderna e democratica del socialismo sovietico; mantenersi fedele al progetto di superamento del capitalismo; e infine definire la linea del partito nella convinzione della “diversità” quasi antropologica dei comunisti rispetto a tutti gli altri. Fra le cose che il giornalista ritiene essere contro la realtà, ci sono anche le pagine di Berlinguer sull’austerità in cui egli, condannando il consumismo, denuncia “l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato sull’artificiosa espansione dei consumi individuali”. E ci sono quelle in cui sottolinea il carattere negativo degli “idola capitalistici”: l’individualismo, la rincorsa del guadagno facile, la fuga dalle responsabilità e la ricerca del poco lavoro e del poco rischio; l’assillo di pervenire a uno status sociale di successo. Ma, dice Feltri, partendo da questi presupposti, non si agisce per correggere il capitalismo, ma per abbatterlo, in quanto il consumismo e gli “idola” denunciati sono connotati inerenti alla sua natura. Poiché in tutti i Paesi occidentali, e oggi anche altrove nel mondo, il capitalismo non è in discussione, diventa necessario per gli eredi di Berlinguer liberarsi di questi riferimenti mitologici altrimenti saranno destinati sempre alla sconfitta.
Lascio volentieri agli storici e ai politologi definire la figura e il pensiero di Enrico Berlinguer. Voglio invece soffermarmi sull’ultima considerazione di Matteo Feltri. Ritengo che non ci siano solo i nostalgici di Berlinguer (sempre che ce ne siano ancora) a essere critici nei confronti di un consumismo sempre più in contrasto con ogni possibile sviluppo sostenibile, ma anzi rilevo che questa critica è diventata, in tutto il mondo, il punto di riferimento dei movimenti ecologisti e di quanti manifestano preoccupazioni ambientali, compresi gli ultimi Pontefici. Inoltre, non solo a sinistra (fra quanti sono ancora legati a concezioni ideologiche riconducibili al marxismo) si denuncia un individualismo estremo, dissolutore del tessuto sociale, e si invocano equità e solidarietà. Anzi, in materia, le voci più forti vengono da chi vive esperienze e manifesta sensibilità dettate dalla fede religiosa.
Allora tali questioni non interessano i soli nipotini di Berlinguer, ma una platea molto più vasta di persone che in materia dovrebbero porsi alcuni interrogativi.
1) Se il consumismo e l’individualismo estremo sono caratteristiche che contrassegnano il capitalismo in quanto tale (come scrive Feltri), dobbiamo accettarlo per quello che è, oppure dobbiamo ricercare una via per superarlo? 2) Esistono altre declinazioni del capitalismo (oltre a quello oggi dominante) che consentano di salvaguardare l’ambiente e la coesione sociale? 3) Se in teoria possiamo immaginare diverse forme di capitalismo (ad esempio, quella che connota l’economia sociale di mercato), esse possono convivere, in un mercato senza alcuna barriera, con il “turbocapitalismo” prodotto dalla globalizzazione?
Credo che in materia sarebbe indispensabile fare chiarezza o quanto meno cominciare a discutere.
C’è tuttavia chi giudica inutile o sbagliato porre questi interrogativi perché ritiene che non sia compito della politica indicare la direzione di marcia della società e regolare la velocità dei cambiamenti che il mercato e le innovazioni tecnologiche producono. Spetta al sistema economico più efficiente, quale esso sia, generare sviluppo e ricchezza. Come disse Deng Xiaoping, inaugurando il nuovo corso cinese: “Non importa che il gatto sia rosso o sia nero, purché acchiappi i topi”.
Le nuove vie che il mondo prende non vanno giudicate, ostacolate o controllate, ma agevolate: in modo che si valorizzino al meglio le potenzialità che muovono il cambiamento. La politica deve limitarsi a fornire assistenza alla popolazione per rendere eventualmente più sopportabili le modificazioni delle condizioni di vita ad essa imposte. In parole povere, al “turbocapitalismo” spetta il ruolo di tracciare il cammino e guidare la danza; alla politica resta il compito di mettere pezze, più o meno efficaci e più o meno decenti, ai guasti sociali e ambientali che un cambiamento incontrollato produce.
Ritengo che questa strada non porti lontano perché non va alla radice dei problemi (esaurimento delle risorse, degrado ambientale, disoccupazione strutturale, divario fra Sud e Nord del pianeta che produce migrazioni incontrollate, ecc.). In argomento, Anthony Giddens (già Direttore della prestigiosa London School of Economics) ha scritto che vivere nella attuale modernità radicale è come viaggiare su un bisonte della strada (il cui motore è costituito dal “turbocapitalismo”) lanciato in una corsa folle. La fine della corsa potrebbe concludersi con esiti drammatici, lasciando dietro di sé un “agglomerato di comunità sociali decimate e traumatizzate” o addirittura una “repubblica di insetti ed erbe”. Fino a che punto possiamo imbrigliare questo mostro per ridurre al minimo i pericoli e sfruttare le opportunità offerte dallo sviluppo tecnologico? Dovremmo cominciare a misurarci con tale questione. |