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Non seguiamo il modello USA
 
di Giuseppe Ladetto
 

Osservare un obiettivo da una certa distanza può consentire di cogliere meglio il significato dell’insieme piuttosto che guardarne da vicino gli aspetti particolari. È quanto fa Federico Rampini (in Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale: falso) raccontandoci, tra le altre cose, come l’Europa viene percepita dall’angolo visuale nordamericano.
Oggi l’Europa, agli occhi degli americani, è il modello negativo da cui prendere le distanze. Negli Stati Uniti, scrive Rampini, non c’è più rispetto per l’Europa, per il suo ruolo politico, economico e culturale. Il declino europeo è considerato irreversibile. Gli Stati Uniti tengono in considerazione i soli potenziali sfidanti del loro status egemonico, la Cina in primo luogo.
Il giudizio dei nordamericani circa le prospettive di unificazione europea è alquanto pessimistico. Infatti ritengono che, per il forte divario di produttività ed efficienza, i paesi dell’Europa mediterranea non potranno convivere a lungo nell’area euro con la Germania e con quanti ruotano intorno ad essa. L’Italia, pur essendo il secondo Paese manifatturiero d’Europa con imprese efficienti e innovative, viene ritenuta comunque a rischio, perché le imprese valide interessano ridotte aree e limitati settori di eccellenza su cui grava il fardello insopportabile dei molti settori arretrati e di regioni comparabili alla Grecia.
Questi giudizi e questi atteggiamenti statunitensi sono ingiustificati, ci dice Rampini, perché gli Stati Uniti, che pur restano una grande potenza economica, politica e militare, non hanno nulla da insegnarci, in particolare dopo la crisi finanziaria ed economica di cui hanno grave responsabilità. Anzi, il modello politico e sociale europeo è migliore di quello americano sia in base a criteri etici, sia per valori politici ed efficienza economica.
In primo luogo, va considerato il rapporto tra quanto lo Stato esige dai cittadini e quanto esso dà loro. Si dice che il patto sociale americano, in cambio della rinuncia a un generoso welfare, garantisca basso prelievo fiscale. Ma non è così. Il monte delle imposte federali, statali e locali non è molto inferiore all’imposizione media europea, ma ciò in cambio di poco: copertura sanitaria modesta (anche con la recente riforma), scuole e università costose, pensioni bassissime, trasporti pubblici quasi assenti. C’è poi il mondo del lavoro dove la precarietà è regola generale. Se essa da un canto evita fenomeni negativi, come assenteismo e scarso impegno lavorativo, d’altro lato si accompagna a un ricambio altissimo del personale e a scarsa formazione professionale perché le imprese non sono motivate ad investire sulla mano d’opera. Vista nei luoghi di lavoro, la presunta meritocrazia americana, scrive l’editorialista, mostra i suoi limiti: non è l’inferno della paura, come talora viene dipinta, ma nemmeno il paradiso dell’efficienza. Considerata nel suo complesso, la società nordamericana si presenta caratterizzata da un grande e crescente divario tra ricchi e poveri, dove i super ricchi (lo 0,1% della popolazione) si appropriano di una fetta molto grossa del reddito nazionale. E non si limitano a ciò: essi, ci dice Rampini, influenzano in modo determinante la politica stravolgendo le competizioni elettorali con risorse illimitate e con la pubblicità televisiva, intervengono come “azionisti” nelle scelte di governo, definiscono le leggi, dettano l’agenda ai leader. I Paesi europei, pertanto, dovrebbero essere maggiormente consapevoli dell’eccellenza del loro modello politico e sociale ed attivarsi per superare le contrapposizioni e riprendere il cammino unitario.
Certamente, è innegabile che l’Europa sia in decadenza, che abbia perso fiducia in se stessa e che sia dimentica di ciò che è stata ed ha significato per il mondo intero. Tuttavia non sono gli americani ad aver titolo per criticarci, come ci ricorda Rampini.
Purtroppo, rilevo che in Italia, da tempo, c’è una diffusa tendenza, in ambito politico e mediatico, a fare propri i giudizi negativi espressi dagli americani in argomento e a privilegiare in campo economico, politico e istituzionale il modello statunitense. È uno sbaglio o forse una manifestazione di provincialismo. Non dimentichiamo che l’attuale crisi finanziaria ed economica è nata negli Stati Uniti e non per caso. Dal 1970, la bilancia commerciale americana è in un sempre più rilevante passivo (oggi ha raggiunto annualmente 700-800 miliardi di dollari, una cifra equivalente al bilancio statale italiano) a indicare che il Paese vive al di sopra delle sue possibilità.
Ma la classe dirigente degli Stati Uniti non ha voluto vedere le debolezze strutturali del Paese e, per mantenere lo status egemonico conquistato, ha preferito puntare le proprie carte su una spericolata finanza “creativa”. Dai paesi anglosassoni provengono infatti quei nuovi strumenti messi in campo dal capitalismo finanziario grazie ai quali segni monetari artificiali (perché indipendenti dalla realtà materiale) hanno invaso i mercati per un importo che ha ormai superato di molte volte il PIL mondiale. E ancora, ad aprire le porte al dominio planetario del capitalismo finanziario sono stati principalmente esponenti politici anglosassoni (conservatori e progressisti): Ronald Reagan, Margaret Thatcher, Bill Clinton e Tony Blair. Oggi (come ha scritto Ettore Peyron su Il nostro tempo del 16 giugno scorso), sono le banche e la finanza nordamericane ad aggredire l’euro e a schiacciare l’Europa. Inoltre, è bene tenere a mente che l’american way of life(non messa in discussione né dai democratici, né dai repubblicani) non può essere un modello per il resto del mondo, Europa compresa, per l’enorme prelievo di risorse e le grandi emissioni di inquinanti e gas serra che comporta.
Allora mi auguro che in Italia si cessi di inseguire modelli anglosassoni e si presti più attenzione all’Europa. C’è bisogno di riconsiderare le politiche europee andando oltre le questioni economico-finanziarie, le sole oggi ad essere considerate, e porre al centro dell’attenzione la costruzione dell’unità politica del continente e la salvaguardia del suo patrimonio storico e culturale. O, meglio, della sua civiltà. Solo in tal modo l’Europa potrà fuoriuscire dall’attuale condizione di subalternità e trovare lo spazio che le compete in un mondo multipolare.


Antonio R. Labanca - 2013-08-20
Come il berlusconismo è diventato un costume mentale, anche l'americanismo lo è, e da molto più tempo. L'impegno della politica dovrebbe essere anzitutto quello della cultura, sapendo che il cambio di costume mentale è lento. E non sempre irreversibile, almeno fino a che non se ne sia sperimentato il limite. Ma non tutti oggi pensano di aver raggiunto il limite, sia del berlusconiscmo sia dell'americanismo, del quale il primo non è che la variante italiota.
Carlo Baviera - 2013-08-09
Condivido pienamente. E mi sono permesso di pubblicarlo su facebook (spero che l'autore non mi tiri le orecchie). Non si può che partire da queste considerazioni e convinzioni per un programma di centro sinistra. E' una indicazione concreta allo stimolo di Giorgio Merlo sull'antiberlusconismo.