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PD, ma i cinquantenni dove sono?
 
di Giorgio Merlo
 

Nel dibattito, a volte un po’ surreale, che caratterizza il PD sulla selezione della sua classe dirigente, sui suoi limiti e su chi oggi esprime maggior novità e freschezza, ormai sappiamo quasi tutto. Dapprima c’erano solo i cosiddetti “rottamatori” – quasi tutti fra i 30 e i 40 anni – poi quella galassia si è sfilacciata progressivamente e sono nate varie correnti micro generazionali. Varie leadership sono nate e anche tra quella fascia generazionale le divisioni si sono imposte. Tant’è che oggi esistono più correnti generazionali all’interno della medesima fascia generazionale. È solo una questione di potere. C’è già chi corre per fare il Premier, chi per fare il semplice parlamentare e chi per guidare il partito a livello nazionale. Per il momento, non c’è ancora la proposta di abbassare la soglia anagrafica per accedere al Quirinale e quindi c’è ancora da rallegrasi. Ma, al di là delle sacrosante e del tutto legittime esigenze di potere – perché di questo si tratta, come tutti sanno – le varie “etnie” di trentenni e di quarantenni esistono, e con loro occorre fare i conti. Che poi si tratti di questioni di potere e posti spacciate abilmente come elementi di rinnovamento, di cambiamento, di contenuti innovativi, di modernizzazione e compagnia cantante, poco cambia. Certo, la carta d’identità non è mai stata fonte di grande valenza politica e di fulminante intuizione progettuale. Anche perché il celebre detto di Nenni è sempre in agguato e c’è sempre uno più giovane all’orizzonte che compare…
Ma comunque i rottamatori esistono. Come esistono, secondo la vulgata giornalistica, gli “intramontabili” sessantenni. E qui ci troviamo di fronte a persone, uomini e donne, che non rivendicano solo un fatto generazionale ma anche, riconosciamolo, sono espressione di una statura politica e culturale che li ha portati a ricoprire ruoli di leadership conquistati sul campo e progressivamente consolidati. E nella politica, come in tutti gli altri settori della vita sociale, quando si conquistano degli spazi difficilmente si cedono gratuitamente o per grazia divina. Se c’è capacità politica, e di leadership riconosciuta, diventa difficile scalfire quegli spazi anteponendo, o ostentando, solo la propria carta di identità.
Però, e qui è la riflessione-provocazione che voglio fare, c’è una generazione – quella dei cosiddetti cinquantenni – che non può essere frettolosamente archiviata. Anche perché proprio questa generazione oggi riveste ruoli squisitamente dirigenziali all’interno del partito e delle istituzioni ma viene sempre individuata come una “categoria” di mezzo che è stata cooptata da quella precedente e che vanta minor freschezza e originalità di quella successiva. Ora, questa è una generazione che si è formata all’impegno politico negli anni di una ancora forte partecipazione politica e tensione culturale, dove il magistero politico di uomini come Moro, Zaccagnini, Donat-Cattin da un lato e Berlinguer, Lama e Ingrao dall’altra contribuiva ad arricchire e infiammare il confronto politico. Una generazione che ha iniziato la sua militanza nei movimenti giovanili dei partiti, che è passata attraverso le amministrazioni locali e che, comunque, vantava un profondo radicamento sociale, culturale e territoriale nei rispettivi mondi di riferimento. E perché, allora, nella concreta esperienza del PD e al di là di rispettabilissimi singoli casi, proprio questa generazione continua a non essere protagonista?
Ora, senza ricadere nel vizio della carta di identità – vizio infantile che denota solo un’irriducibile e quasi innata vocazione al potere e alla carriera – si tratta di far sì che una generazione che si è forgiata nel vivo della battaglia politica e non solo nell’adulazione del capo o nella spettacolarizzazione della politica fatta di comparsate televisive e manipolazione degli strumenti tecnologici, esca allo scoperto e dimostri, se ci sono ancora le potenzialità politiche e culturali, la sua valenza e la sua qualità. E questo non per riempire solo un vuoto generazionale – il che sarebbe ben poca cosa – ma, al contrario, per favorire un continuo e fisiologico ricambio a tutti i livelli senza individuare la soluzione miracolistica in alcuni settori generazionali che, grazie alla spregiudicatezza nella ricerca e nell’uso del potere, appaiono come la forma più raffinata e più nobile del rinnovamento e del cambiamento. Ma, secondo la miglior tradizione, questo vuoto lo si riempie solo attraverso la politica e suoi strumenti. Del resto tipici della generazione dei cinquantenni. E cioè, la militanza, l’elaborazione politica e culturale e la rappresentanza territoriale. Il resto continua ad essere solo apparenza e pura ricerca del potere.


Aldo Cantoni - 2011-09-26
Meglio essere un vecchio con mentalità giovane che un giovane con mentalità vecchia. Sembra una ovvietà; ma il mondo politico, che ho conosciuto, troppe volte mi ha mostrato esempi dove il successo è appartenuto a persone che di giovane avevano solo l'età.
Edgardo - 2011-09-18
Sono d'accordo con Lei Onorevole, per tanti come il sottoscritto che hanno impiegato le proprie energie nella gloriosa DC, Margherita e PD ci siamo aspettati che anche questa esperienza fosse foriera di soddisfazioni e che permettesse di continuare a mettere a disposizione le proprie esperienze e forze. Almeno nelle realtà che conosco non ci siamo sentiti non solo impiegati ma addirittura nemmeno convocati. Abbiamo assistito ad una triste spartizione di sedie e di incarichi soltanto rivolta a senso unico. Che non era quella dalla quale proveniamo. Non importa. Il nostro lungo corso sarà sempre a disposizione di un progetto che incarni i nostri credo, valori e convinzioni: lo dico da rappresentante della zona di Biella e del Biellese in Comitato Regionale dell'Associazione Popolari, grande progetto che continua a giustificare la mia azione ed esperienza politica vera.
Mauro Mantelli- Cuneo - 2011-09-17
Bravissimo. Hai saputo condensare ed esprimere il quadro di una generazione politica che ha vissuto i suoi primi anni nella militanza territoriale e nella convinzione che elaborazione, cultura e politica non fossero separabili. Io sono nato nel 1961, ho iniziato la mia avventura politica nel 1978 nella FGCI di D'Alema. Con i miei compagni del circolo di Cuneo e della direzione regionale ogni comitato centrale era occasione di (faticosa ma indispensabile) lettura e commento degli interventi. I nostri maestri si chiamavano Enrico Berlinguer, Amendola, Ingrao (chi ricorda ancora"Masse e Potere"?), Reichlin. L'apprendistato amministrativo era duro e selettivo, in Consiglio Comunale si interveniva solo se preparati. Fatto sta che, nel 1995 fummo noi a fare di una città tradizionalmente bianca e conservatrice, una roccaforte del centro sinistra alleandoci con il mondo cattolico attento al sociale e legato a noi da anni di battaglie politiche per la pace e l'inclusione sociale. Iniziò allora la mia esperienza di governo come assessore all'urbanistica e, in seguito, vice sindaco. La mia generazione si trovava chiusa da quella degli ex sessantottini, cultori della loro esperienza con la sindrome di Peter Pan.