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Separazione in RAI
 
di Giorgio Merlo
 

La vicenda Santoro si è chiusa come ormai tutti sappiamo, ma il tema di come declinare il pluralismo nel servizio pubblico radiotelevisivo resta tuttora aperto. Non intendo entrare nei dettagli della cosiddetta separazione consensuale tra il conduttore di Annozero e l’azienda. Al di là della sontuosa e cospicua liquidazione – elemento che, quando si parla di Santoro, non è mai una novità – resta un dato: e cioè, è singolare che quando una trasmissione fa ascolti e garantisce buoni introiti pubblicitari venga vista quasi come un inciampo o un incidente all’interno dell’azienda. E, soprattutto, che la suddetta trasmissione non abbia quasi mai potuto lavorare tranquillamente perché fortemente condizionata da settori della politica che la volevano, di fatto, ridurre se non cancellare e silenziare. Certo, Santoro lo conosciamo bene. Almeno noi amanti del servizio pubblico e cittadini che ascoltano con interesse le trasmissioni di approfondimento politico e giornalistico della RAI. Il suo format, soprattutto questo ultimo, si è sempre caratterizzato lungo il binario dell’avversario politico da mettere in discussione, se non da abbattere. Il tutto, però, attraverso un uso sapiente e intelligente del giornalismo televisivo. Un giornalismo ovviamente di parte e politicamente molto schierato ma anche capace di far ragionare e di evidenziare le contraddizioni che si annidano nella politica italiana mischiando l’approfondimento con i comizi, le inchieste con i proclami. Tuttavia, era un format di successo che, appunto, garantiva ottimi ascolti e discreti introiti pubblicitari.
Ora, la risoluzione del contratto risolve alcuni problemi ma apre molte domande sul futuro, sulla credibilità e sulla “qualità” del servizio pubblico radiotelevisivo.
Personalmente non rientro tra coloro che andranno a Lourdes a pregare affinché Santoro ritorni alla RAI. Almeno per il rispetto dell’accordo che ha stipulato con l’azienda accompagnato da condizioni non del tutto indifferenti per le stesse casse della Tv pubblica. Ma non posso non rilevare che l’offerta della RAI, e in particolare della seconda rete, oggettivamente si indebolisce. E continuo a ritenere che l’azienda è credibile e vince la sfida della competitività quando riesce a dispiegare una vera qualità. Anche e soprattutto nel campo dell’informazione. E l’esaltazione del pluralismo, su questo versante, è la carta decisiva e discriminante per caratterizzare il profilo e l’identità della RAI.
Certo, il pluralismo politico in Tv è diventato, nei fatti, una semplice “sommatoria di faziosità”. Lo abbiamo detto molte volte, ce ne siamo fatti una ragione e la realtà ha sostituito cammin facendo le buone intenzioni, le regole, i principi e le stesse indicazioni contenute nei documenti della Commissione di Vigilanza e nei vari pronunciamenti aziendali. Ma tant’è. Ma questo sfregio al vero giornalismo di inchiesta – ormai, salvo rarissimi esempi come Report, una merce rara nella RAI – non può colpire solo in una direzione. Noi assistiamo quotidianamente a piccoli e a grandi comizi politici all’interno della stessa programmazione del servizio pubblico. Dalle notizie un po’ edulcorate di alcuni Tg a commenti dopo il Tg che sono certamente apprezzabili ma sicuramente ascrivibili sotto la voce di “propaganda politica”. È questo il modello di servizio pubblico a cui dovremmo adattarci nel futuro? Se così fosse, Santoro vale Ferrara come Minzolini la Dandini ecc. Cioè, se il giornalismo diventa semplice partigianeria politica e smaccatamente riconducibile ai singoli schieramenti politici, seppur ammantato di inchiesta e di racconti verità, la RAI inesorabilmente si trasformerebbe in un megafono del tutto funzionale alla maggioranza di turno. E in regime di conflitto di interessi perdurante come quello italiano dominato dal berlusconismo, questo tarlo rischia di creare un cortocircuito che mette a rischio la stessa democrazia. E non lo dico alludendo stupidamente ai regimi dittatoriali o amenità del genere ma denunciando una degenerazione che è sotto gli occhi di tutti e che va arrestata nell’interesse di tutti i cittadini e dello stesso istituto della democrazia. Ecco perché la declinazione del pluralismo nel servizio pubblico radiotelevisivo non è tema da appaltare agli addetti ai lavori o alle semplici circolari burocratiche dell’azienda.
E il caso Santoro deve farci riflettere, aprendo gli occhi e tenendo alta la vigilanza sulla intera programmazione della RAI in vista anche dei palinsesti autunnali. Partendo dal principio, però, che non ci sono né martiri né eroi né, tantomeno, conduttori e artisti che soffrono per la loro condizione. È appena sufficiente volgere lo sguardo agli ingaggi milionari per rendersi conto che il martirio e la sofferenza sono categorie che non possono e non devono essere involgarite e confuse con la condizione di vita dei divi milionari del piccolo schermo. Il problema, semmai, è squisitamente politico e va affrontato sotto questa lente. E cioè, o il servizio pubblico riesce a recuperare una credibilità dovuta alla professionalità e all’indipendenza di giudizio dei suoi operatori oppure ci rassegneremo alla amara e triste conclusione che la RAI non è nient’altro che una banale cassa di propaganda della politica. Il che equivarrebbe a segnarne la sua fine, malgrado la vittoria degli ascolti rispetto ai concorrenti e il crescente gradimento del pubblico. Dando ragione a chi, maldestramente, ne coltiva l’azzeramento attraverso la proposta della privatizzazione e della consegna di un enorme patrimonio culturale, di idee e di esperienze nelle mani di gruppi e di lobby del tutto indifferenti se non estranei alle ragioni che da sempre caratterizzano la presenza di un servizio pubblico autorevole e trasparente.
E su questa sfida si gioca la stessa credibilità del nuovo vertice aziendale. La sterzata introdotta da Lorenza Lei rispetto alla gestione Masi è stata salutare e da non contestare a priori. Adesso, al di là del destino professionale di Santoro, si tratta di rilanciare senza tentennamenti la sfida della “qualità” e del “profilo” del nuovo servizio pubblico. A cominciare dalla stessa programmazione dei palinsesti autunnali e dalle ormai imminenti nomine in alcuni posti chiave del mosaico aziendale. Ne va della credibilità dell’azienda ma anche, e soprattutto, del futuro della democrazia nel nostro Paese.