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Globalizzazione: una strada senza ritorno?
 
di Giuseppe Ladetto
 

Continuiamo a sentir dire dagli esperti di economia, e non solo da loro, che la globalizzazione è una strada senza ritorno. Si è dimostrata vincente su tutti i fronti. I fautori della globalizzazione sono però costretti ad ammettere che ci sono dei problemi.
Oggi, viene detto, a essere in crisi sono i suoi effetti, essendo fallito il governo politico ed etico del processo al quale sono mancati i vincoli. Immigrazione, disuguaglianze economiche, rigurgiti populisti sono i segni di un disordine globale. Ma, viene ribadito, la globalizzazione è inarrestabile: non si ritornerà al passato, non la fermeranno nuovi confini, muri, tribalismi di ritorno, tutte misure dettate da reazioni psicologiche comprensibili, ma infantili.
A fronte di queste parole, mi chiedo: come si può dire che la globalizzazione è vincente e nel contempo riconoscere che sono distruttivi i suoi effetti, essendo essa la prima causa del disordine globale?
La qualità di un albero si giudica dai frutti che produce.
A questo quesito, viene risposto che il momento presente appare difficile perché sono stati fatti troppi errori. In particolare le disuguaglianze economiche sono un fattore di disgregazione che alimenta il populismo. A chi imputare tali errori?
La sinistra riformista fa risalire le responsabilità della situazione attuale agli anni Ottanta, al crollo delle politiche socialdemocratiche di welfare, alla crisi fiscale dello Stato, alla Thatcher e a Reagan, alla speculazione finanziaria, e alla vittoria di una nuova pericolosa concezione del mondo, subentrata al crollo del comunismo, che vede nella deregolamentazione in tutti gli ambiti la via per inaugurare il regno della libertà.
Debbo constatare che ci sono molte lacune in questa ricostruzione degli eventi. Se il neoliberismo, con la corsa alla deregolamentazione e alle privatizzazioni, ha creato molti guasti, tuttavia, si dimentica che la globalizzazione si è affermata a partire dagli anni Novanta e che sono stati soprattutto Bill Clinton e Tony Blair a dare impulso e spazio, in ambito politico, alla finanziarizzazione dell’economia. Si dimentica, inoltre, che i politici progressisti (diventati tutti liberal) fecero, e fanno ancora oggi, a gara con la destra neoliberista nell’avallare la concezione che il mercato sia l’unica strada per lo sviluppo economico e a demonizzare ogni critica in merito come antiquata o addirittura manifestazione di nostalgia per il comunismo. E altrettanto è accaduto per quanto riguarda la corsa all’esportazione (anche con il ricorso alle armi) del regno della libertà, della liberaldemocrazia e del libero mercato, che ha provocato la destabilizzazioni di vaste aree del pianeta e favorito l’espansione di un turbocapitalismo predatorio.

Molti credono che la globalizzazione possa essere governata sul piano etico e politico e condotta verso obiettivi che ne minimizzino i guasti. In Europa, il fronte “progressista” ritiene di essere all’altezza di tale compito riproponendo le politiche socialdemocratiche di welfare come correttivo degli squilibri e delle disuguaglianze prodotti dal libero mercato. È questa una prospettiva illusoria perché le politiche socialdemocratiche si sono dimostrate sempre meno sostenibili da quando l’insieme dei Paesi occidentali non ha più goduto del monopolio delle risorse e dei privilegi che gli assicurava il colonialismo vecchio e nuovo. Nel mondo attuale, non c’è più spazio per tali politiche; non ci sono più le risorse per attuarle. L’Europa, con il 7% della popolazione mondiale, spende ancora oggi, per un welfare ritenuto non più adeguato, la metà delle risorse mondiali impiegate in materia.
Questo vuol dire che dobbiamo mettere da parte ogni politica volta a dare risposte a chi resta indietro, a chi non ce la fa? No, significa che bisogna, a tal fine, cercare altre strade (in direzione di un cooperativismo di tipo comunitario) perché quella “socialdemocratica” costa troppo per le disfunzioni e gli abusi che essa comporta, e soprattutto per il peso troppo grande dell’intermediazione burocratica che la caratterizza. E ciò anche nei Paesi nordici dove pur funziona meglio.
Inoltre, le ricadute negative della globalizzazione non dipendono solo da una non equa ripartizione dei frutti prodotti, come pensano i riformisti di marca liberal. Non è così, perché i guasti della globalizzazione (distruzione dell’ambiente, modificazioni climatiche, disoccupazione strutturale, migrazioni incontrollate, individualismo estremo e sgretolamento dei legami sociali, ecc.) sono principalmente imputabili alle modalità operative e alle finalità di quel turbocapitalismo che il mercato globale ha prodotto.
Ci sono inoltre coloro che vorrebbero una globalizzazione a compartimenti stagni: sì alla globalizzazione dei diritti, no a quella dei capitali; sì alla circolazione degli essere umani, no a quella delle imprese che delocalizzano, e via dicendo. Discorso fuori dalla realtà, perché la circolazione richiesta, o imposta, dal mercato globale riguarda uomini, merci, imprese e capitali. Dovrebbe essere ben chiaro che la sola globalizzazione possibile e reale è quella vigente con tutte le ricaduta negative che essa comporta. È illusorio pensare che possa essercene un’altra, immaginata “buona”, perché è altamente improbabile che la complessità del mercato globale, proprio per le sue dimensioni, possa essere governabile.

Inoltre, che cosa significa dire che la globalizzazione è irreversibile?
Nella storia, abbiamo avuto varie epoche che, in qualche misura, possono essere ritenute contrassegnate da questo fenomeno. Mercati aperti, circolazione di merci, uomini e capitali, e grandi fenomeni migratori ci sono già stati. Di queste passate “globalizzazioni”, parla Mario Deaglio, in Postglobal (edito nel 2004 da Laterza), mostrandoci come siano sorte e come siano terminate. A tali epoche di apertura, infatti, ne sono succedute altre dove sono prevalse le chiusure. Sono i corsi e ricorsi della storia.
Nel volume citato, Deaglio riconosce che la globalizzazione contemporanea ha manifestato molti aspetti positivi con ricadute benefiche, specialmente per il Sud del mondo, ma mette in risalto i crescenti limiti del fenomeno attuale; ne evidenzia gli effetti negativi non previsti (le diseconomie esterne globali) sorti ben presto: fra questi, i crescenti guasti ambientali, l’aumento dei divari di reddito tra aree geografiche e all’interno dei singoli Paesi, nonché la crescita della povertà in Europa e America settentrionale, mentre problemi un tempo confinati a livello locale sono diventati globali. Si badi che il libro è del 2004, e già allora l’economista torinese evidenziava che anche i risultati positivi raggiunti in quegli anni minacciavano di deteriorarsi. Poi a peggiorare ulteriormente il quadro, è sopraggiunta la crisi finanziaria ed economica in cui ancora ci troviamo immersi. Recentemente Deaglio è ritornato sul tema nella presentazione del XXI “Rapporto sull’economia globale e l’Italia” del Centro Einaudi.

Dubbi sul percorso della globalizzazione li ha manifestati anche Emmanuel Todd, demografo e sociologo, in Dopo l’impero (Marco Tropea Editore, 2003), secondo il quale l’intensificazione prioritaria degli scambi tra Paesi vicini conduce alla costituzione di regioni economiche integrate su scala continentale, disponibili a introdurre misure protezionistiche esplicite rispetto al resto del mondo. È qualche cosa di molto simile all’ “arcipelago”, di cui parla Deaglio nel volume sopraccitato, ossia l’integrazione commerciale tra Paesi geograficamente prossimi e legati da vincoli storico-culturali. In questa prospettiva, a livello globale rimarrebbero i mercati delle materie prime e una parte della finanza, nonché le reti (trasporti, comunicazioni, internet), mentre, in ogni singola "isola" (zona euro, nord America, nuova zona cinese, ecc.), varrebbe la libertà di commercio, che sarebbe invece sottoposta a limitazioni e accordi bilaterali tra un'isola e l'altra per quanto riguarda la gran parte dei beni di consumo e dei servizi.
Ho presentato, per averne un parere, le tesi dei due autori sopraccitati a un economista, il quale le ha subito accantonate dicendo che, se tali prospettive si potevano considerare ancora aperte al tempo in cui erano state formulate, non lo sono più oggi quando il processo della mondializzazione dell’economia è in larga misura completato. Siamo sempre all’irreversibilità del processo, ma francamente credo che di irreversibile ci sia soltanto la morte.

Nei dibattiti che mi è capitato di ascoltare in materia, le critiche alla globalizzazione vengono liquidate come prive di senso perché la sola alternativa ad essa sarebbe l’autarchia, ritenuta il peggiore dei mali. Mi chiedo tuttavia se sia poi così insensato auspicare che un territorio possa contare sulle proprie risorse in tema di approvvigionamenti alimentari e di produzione energetica, quanto meno per la sopravvivenza dei suoi abitanti. Nel caso dell’energia, è un obiettivo che, con il ricorso alle rinnovabili, è alla portata anche di chi non dispone di gas e petrolio. Infatti, di fronte a possibili gravi crisi (guerre, terrorismo, sanzioni, blocchi, sabotaggi informatici di grandi infrastrutture, ecc.), possono venir meno gli apporti esterni di beni e risorse vitali con conseguenze drammatiche. Nel corso della prima guerra mondiale, la Germania, il Paese dell’Europa continentale più industrializzato e tecnicamente avanzato, ha avuto, a seguito del blocco navale britannico circa due milioni di morti di stenti tra la popolazione civile perché non era autosufficiente sul piano alimentare. Ma basta molto meno, nell’attuale mondo interconnesso, per mettere in ginocchio l’economia di uno Stato. Pensiamo a fatti recenti: la Tunisia, a seguito di attentati, ha visto crollare a zero il settore turistico che rappresentava un punto di forza nella sua economia e la principale fonte di valuta estera. In ogni caso, nessuno oggi propone un’autarchia assoluta, ma semmai, come emerge dalla descrizione dell’arcipelago prospettato da Deaglio, qualche cosa che ha a che fare con la sussidiarietà, non solo in ambito politico e amministrativo, ma anche economico-produttivo.

A chi oggi dice che il protezionismo è foriero di pericoli, non solo per l’economia ma anche per la democrazia, segnalo quanto scritto da Emmanuel Todd.
Nel mondo attuale, c’è una tendenza oligarchica sempre più evidente, alimentata dal ruolo crescente dei tecnocrati, mentre, tra i cittadini, cresce una forte domanda di partecipazione democratica indotta dalla diffusione dell’istruzione, anche di livello superiore. I futuri assetti istituzionali dipenderanno dalla composizione delle due spinte in opposte direzioni (democratica ed oligarchica). Il libero scambio assoluto, determinando all’interno dei Paesi crescenti squilibri sociali, favorisce l’instaurarsi delle oligarchie tecnocratiche. Il neoprotezionismo sulla base delle grandi regioni, consentendo maggiori tutele dei lavoratori e una più equa ripartizione del reddito nazionale, favorisce la tendenza democratica.
Credo che si debba tenere conto di queste parole.


Giuseppe Davicino - 2017-03-22
Come sempre Ladetto ci aiuta a pensare ed a spezzare la subalternità culturale della nostra area al pensiero dominante. Ci suggerisce delle piste interessanti, tra cui le seguenti due: sono le oligarchie, con il loro politicamente corretto che imbavaglia il pensiero, a creare i populismi. Secondo: i veri nemici del commercio globale sono le forze progressiste che hanno cavalcato il neoliberismo (Clinton, Obama, Blair, il Pd). Mentre chi è rimasto fedele ai veri valori dei riformismo vede nei dazi e in ponderate forme di protezionismo una valida tutela per il lavoro, per l'ambiente, per ridurre le disuguaglianze. Il protezionismo, contrariamente a quanto si pensa, è il propellente del commercio mondiale mentre il liberismo alla lunga lo distrugge. L'establishment globalista ha creato un sistema nel quale tutte le economie nazionali sono orientate all'esportazione e nessuno, tra il popolo, tra chi produce, ha più i soldi per comprare. É questo, la caduta della domanda interna, che ha determinato l'attuale crisi del commercio globale. Ma ai signori del denaro questo non interessa. Loro vogliono creare il governo mondiale, inteso non come auspicabile collaborazione fra tutti i popoli, ma come assoggettamento da parte di un unico centro finanziario globale di tutta l'umanità, in modo che si possa rivelare anche nella nostra epoca la visione apocalittica della Bestia (il principe delle tenebre) senza il cui marchio sulla mano o sulla fronte “nessuno possa comprare o vendere”(Ap. 13, 17). Noi cattolici impegnati in politica, se non facciamo uno scomodo e costante esercizio di discernimento, rischiamo di essere nel migliore dei casi degli sciocchi servitori di un tale progetto ostile all'umanità, che incarna nel nostro secolo in forme nuove lo spirito dei totalitarismi del XX secolo. Il tutto con la benedizione dei grandi giornali e dei sacerdoti del politicamente corretto.