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La fine delle ideologie
 
di Michele Zolla
 

Da tempo si è celebrato da parte degli aristocratici del pensiero, o presunti tali, il funerale delle ideologie, di tutte le ideologie e si è inneggiato alla nascita dei partiti deideologizzati. A me sembra che si sia proceduto in modo frettoloso e alquanto sommario senza un’adeguata riflessione. Innanzitutto, che cosa si intende definire con il vocabolo “ideologia”? Secondo Destut de Tracy, che lo ha coniato, esso doveva indicare una nuova scienza, lo studio delle idee, della loro formazione e dei loro caratteri. Successivamente con la stessa parola si definirono le idee e quindi i sistemi di idee e questi ultimi hanno ispirato dei modelli di società che, a loro volta, sono diventati degli ideali. Per realizzare gli ideali sono nate poi delle associazioni che hanno assunto il nome di “partito”.
Le ideologie costituiscono perciò la base di una visione ideale della società e dell’azione concreta per realizzarla, cioè di un progetto di società e per questo non vanno confuse con l’utopia. È però del tutto evidente che nessuna ideologia, nessun modello di società può rispondere a tutte le domande della persona e per questo i partiti sono tali e cioè “parte”.
Quando si esce da questo schema le ideologie degenerano, diventano totalizzanti e sono la base dello Stato totalitario detentore di tutti i diritti che, a sua volta, li concede in parte ai cittadini che non sono titolari di alcun diritto originario o diritto naturale; e lo strumento di governo di sistemi siffatti diventa il partito unico. L’ultimo parto mostruoso delle ideologie totalizzanti è lo Stato etico cioè fonte di norma etica che rappresenta la forma più aberrante della concezione di Stato. Che gli Stati totalitari, e i partiti unici che di questi erano il sostegno, siano andati in frantumi giustiziati dalla storia, è un fatto estremamente positivo, anche se qualche residuo di questi modelli sul pianeta è rimasto.
Ciò che non è corretto è fare di ogni erba un fascio, e proclamare per ciò stesso la fine di tutte le ideologie. Che umanità sarebbe quella costretta a vivere senza ideali?

Ciò premesso, ora ci si deve chiedere se hanno ancora un ruolo nel momento politico attuale i partiti. Innanzitutto dobbiamo convenire che ci troviamo in una società pluralista ove tutti i ceti che la compongono sono portatori di istanze legittime che devono trovare un punto di contemperamento per realizzare l’interesse generale o il bene comune. Questa opera di mediazione sociale compete alla Politica e cioè ai soggetti che devono avere un progetto di società, una proposta chiara e comprensibile da presentare ai cittadini per ottenerne il consenso a realizzarla. Ecco perché non sono idonei a svolgere questa funzione i movimenti, perché pur agendo nell’interesse generale non pretendono di avere un progetto di società ma si limitano a perseguire un obiettivo e non chiedono altro. Gli esempi di questo tipo sono numerosi, dal voto alle donne, al divorzio, a tanti altri nella storia dei Paesi democratici.
Ora però nel panorama politico italiano si è presentato un soggetto che si definisce “movimento” ma che intende agire come “partito” e come tale si comporta, rivendicando posizioni all’interno degli organi costituzionali e in ogni momento chiedendo di avere tutto ciò che compete ai partiti in nome del consenso raccolto. Esso non ha un progetto politico definito, ma si limita ad affermazioni generiche che non possono non essere condivise (“onestà-onestà”) o a fare proposte da “welfare” avanzato e di facile “appeal” come il “reddito di cittadinanza” senza però indicare dove reperire i fondi necessari. Le proposte da presentare le trae dai suggerimenti che il vertice tecnocratico del movimento riceve sulla piattaforma digitale creata allo scopo, in modo da poter così vantare di avere realizzato la democrazia diretta in contrapposizione alla democrazia rappresentativa, dalla quale sono scaturite tutte le nefandezze della partitocrazia.
Sembra questa scoperta la riproposizione in forma moderna dell’“agorà”, della piazza dove le città-stato dell’antica Grecia prendevano le decisioni pubbliche. Ora, a parte il fatto che la dimensione delle città-stato non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella di un Paese di cinquantasei milioni di abitanti, occorre tenere presente che questa forma di democrazia diretta, sia per il costo degli strumenti per esercitarla, sia per la manualità che richiede, esclude la fascia più anziana della società e quindi grosso modo un terzo dell’elettorato.
La ragione più grave però che rende la democrazia diretta uno strumento da non considerare praticabile consiste nel fatto che essa riflette le pulsioni del momento e cioè il responso non è mai, o quasi mai, frutto di riflessione e di saggezza, ma di stati d’animo passeggeri o di impulsi momentanei. Infatti uno dei primi esempi di democrazia diretta che si ricordi si verificò circa duemila anni orsono quando il magistrato romano si affacciò al balcone del suo palazzo e chiese al popolo accalcato nella piazza sottostante chi voleva che venisse liberato secondo la tradizione in quella ricorrenza. Non credo proprio che si possa dire che la risposta sia stata esaltante.
In sostanza, come diceva Spadolini, contrapporre la democrazia diretta alla democrazia rappresentativa significa fare soltanto della demagogia.
Allora possiamo dire che la democrazia rappresentativa rimane ancora la migliore forma di governo, ma dobbiamo ricordare come diceva De Gasperi che essa “è scomoda perché richiede la partecipazione” e questa si attua, almeno per ora, attraverso gli unici canali della raccolta del consenso che sono i partiti.
Questi purtroppo nel momento attuale sono decisamente in crisi perché essendosi di fatto liberati della “coltre” ideologica non hanno saputo trovare una vera identità, con l’aggravante che non li aiuta certo a questo fine la mancata attuazione dell’articolo 49 della Costituzione. Abbiamo quindi visto in questi ultimi anni gruppi politici o embrioni di partito comporsi e scomporsi in maniera quasi frenetica, con la conseguenza di confondere sempre più le idee al cittadino elettore che nel disgusto generale ingrossa l’astensione.

In questo quadro confuso della vita democratica nazionale sembrava che un soggetto con una identità politica definita quindi capace di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” fosse rimasto sulla scena: il Partito Democratico. A molti elettori era parso di trovare in esso il punto di incontro tra le categorie del popolarismo sturziano e del socialismo democratico delle democrazie occidentali. Capace quindi di guidare con giusto equilibrio lo sviluppo del Paese, e per questo gli avevano tributato una messe di voti come non si ricordava da decenni. Ma ahimè in questi ultimi tempi sono cominciate al suo interno accese discussioni degenerate in scontri con alcuni parlamentari che in aula hanno votato contro i deliberati della maggioranza e sono rimasti nel partito e con altri che coerentemente hanno votato contro e ne sono usciti. Ora voci autorevoli di alcuni suoi esponenti minacciano addirittura di non votare la fiducia al governo, aumentando la confusione nella testa dei cittadini che già le idee non le hanno tanto chiare. Altri, più pacatamente e certamente con autentica sofferenza, manifestano il disagio di non riconoscere più la “ditta” alla quale erano affezionati e li può capire chi, dopo quarantaquattro anni di iscrizione, ha dovuto accettare la fine ingloriosa del suo partito, ma occorre da parte di tutti un atto di generosità per restare fedeli a ciò che si è contribuito a costruire.
Innanzitutto ricordino gli uni e gli altri che il Partito Democratico non è la raccolta dei sopravvissuti alla fine della DC o del PDS. Veltroni, che del PD è stato il fondatore, ha detto (“Repubblica” del 26 giugno) che il PD “non deve essere la prosecuzione dei vecchi partiti e delle vecchie correnti. È una cosa nuova, è la sinistra riformista del nuovo millennio”. Se proprio dovessimo cercare le sue radici probabilmente possiamo trovarle più facilmente nel tronco capitozzato dell’Ulivo.
Certo, la legge che in democrazia le decisioni si prendono a maggioranza in qualche momento può apparire brutale, e quindi non si può usare l’ascia per dirimere ogni controversia. Ma al tempo stesso infrangerla è anche peggio, perché l’inosservanza continua genera la confusione e questa porta alla disaffezione e infine alla dissoluzione.
Nessuno penso voglia arrivare a tanto, ma allora è bene che tutti tornino a ragionare e a fare squadra.


Domenico Accorinti - 2016-07-13
Comunemente in filosofia politica viene collegato il concetto di ideologia (termine che dalla sua coniazione di strada semantica ne ha fatta molta) alla concezione progressista della storia e viene fatto rilevare dagli storici delle dottrine politiche che dal concetto unico di ideologia come rappresentazione di una unica forma di progresso dalla fine dell'ottocento si è passati, attraverso tutto il novecento (V. K.D. Bracher,Il Novecento secolo delle ideologie, Ed. Laterza, Roma-Bari, 1984) ad una pluralità di concezioni relative alle forme di progresso, e quindi di ideologie, tra loro contrastanti ma con una matrice comune: l'uomo informando l'azione politica nella direzione che le filosofie progressiste della storia avevano individuate avrebbero garantito uno sviluppo infinito dell'uomo sia in termini di evoluzione spirituale che di evoluzione materiale (presupposto imprescindibile dell'evoluzione spirituale, visto che il meccanismo di quasi "deificazione" per autoredenzione doveva avere come strumento la liberazione dalle tante schiavitù che la natura matrigna, ma illimitata nelle sue possibilità di essere sfruttata nelle sue ricchezze imponeva da sempre all'umanità: miseria, malattia, etc). Tutti questi presupposti sono stati smentiti dall'ormai evidente limitatezza delle possibilità di sfruttamento del mondo naturale e l'illusione di un possibile arricchimento universale e infinito senza danno per alcuno (basta una politica di giustizia distributiva e tutto si aggiusta) è ormai sostituito dal problema della distribuzione delle risorse, che non si presenta più come un semplice problema di distribuzione tra i membri presenti in un dato momento nelle collettività umane, prima nell'ambito di ogni singola polis (lotte all'interno di ciascuno stato per una accettabile distribuzione, ritenuta giusta, della ricchezza), poi nell'ambito mondiale (lotta tra città e campagna la definiva con fantasia orientale Mao), bensì come un problema di distribuzione delle risorse nel tempo tra le generazioni in concomitanza con altri limiti "tecnici" propri del modo industriale di produrre, soprattutto nella forma estrema della produzione di massa che, con buona pace dei predicatori anticonsumisti, proprio di consumismo si nutre e, nei limiti della, alla fine, inevitabile saturazione, si alimenta. Se questi erano i presupposti delle idelogie politiche (oggi sostituite dall'unica ideologia del primato dell'economia sulla politica, ampiamente praticata nei fatti con squalifica delle classi politiche ridotte a vassalle delle esigenze del mercato globale) pensare che la crisi delle ideologie politiche (ma potremmo dire della funzione politica sic et simpliciter) si riduca a chiedersi come opporsi in nome dell'organicismo alla difesa dei valori ideologici contro il populismo mi sembra alquanto semplicistico. E ciò indipendentemente dalla validità delle specifiche osservazioni critiche sollevate da Zolla (ogni nova forma di pensiero, e conseguentemente anche di prassi, nasce ..... infantile).
Aldo Cantoni - 2016-07-06
A mio avviso le ideologie non sono finite, ma semplicemente sono cambiate. Tuttavia ora i creatori o sostenitori delle nuove ideologie si avvalgono della facoltà, loro concessa dai mezzi di distrazione di massa, di esprimere in modo solo parziale i fondamenti dei pensieri dominanti. In questo modo è possibile cammuffare con obiettivi gradevoli, ma vaghi, i reali obiettivi delle nuove ideologie. La superficialità è il nuovo mezzo soft per dirigere una massa, che non gradisce essere disturbata con troppi ragionamenti.
franco maletti - 2016-07-04
Bella analisi. Mi permetto di aggiungere, a proposito dei movimenti, che essendo la loro funzione principalmente "antisistema", tendenzialmente raccolgono per strada tutto ed il contrario di tutto. Di conseguenza, quando ad un movimento vincente spetta il compito di governare, succede che il leader deve fare delle scelte operative: sapendo che, da quel momento, qualunque scelta fa non trova il consenso di quella parte di elettorato che non la condivide. Da qui nasce un problema di non facile soluzione: o, per mantenere compatto il movimento ci si limita ad una gestione burocratica dell'esistente diventando la brutta copia di quello che fino ad un momento prima si contestava, oppure si fanno delle scelte innovative sapendo fin da subito che il movimento si spaccherà. Con questo voglio dire che un movimento, quando raggiunge finalmente l'obiettivo, con questo traguardo quasi sempre segna l'inizio della sua dissoluzione. A meno di una sua radicale e rapida trasformazione, tutta da venire e verificare attraverso il comportamento dei suoi responsabili diretti.
Franco Campia - 2016-07-04
Nello scritto dell'on. Zolla ritrovo con grande piacere la capacità analitica e la limpidezza di ragionamento che avevo conosciuto ed apprezzato in passato. Mi aspettavo poi che la condizione insostenibile di un "movimento" che intende agire come un partito - come scrive Zolla - quando passa dalla protesta piazzaiola a responsabilità di governo, anche se solo a livello locale, sarebbe col tempo venuta a galla. Non mi aspettavo però che tale conflitto esplodesse da subito... per ora a Roma e vedremo nel resto del Paese. Circa il PD, a parte lo sconquasso che oggi investe in generale le forme partito ed i conflitti derivanti dalla ricerca di leadership personali, resta da capire se un suo significativo tallone d'Achille non risieda anche in certa indeterminatezza e contraddittorietà dei propri riferimenti politico-culturali "post ideologici" .