Burocrazia: la rivoluzione necessaria



Alessandro Risso    24 Giugno 2020       5

Uno degli aspetti più condivisibili del “Manifesto Zamagni” è la piena consapevolezza che viviamo un tempo di crisi così profonda – sociale, economica, morale – da rendere inadeguate le "riforme" di cui tanti si riempiono la bocca: “non basta ri-formare, occorre piuttosto tras-formare”.


In una ipotetica classifica degli ambiti da cambiare radicalmente nel nostro Paese, la burocrazia, da sempre ben posizionata, sta arrivando in cima al podio. Le inammissibili lungaggini per erogare la cassa integrazione ai lavoratori e i prestiti alle imprese bloccate dal coronavirus sono solo l'ultimo tassello di una esasperazione montante, che trova eco in trasmissioni televisive e articoli giornalistici, e cui anche noi abbiamo dedicato qualche spazio. Siamo comunque ben consapevoli che la burocrazia è indispensabile per tradurre in concreto e gestire nel tempo le scelte politiche di un governo, nazionale o locale che sia. Quindi non ci uniamo a chi invoca la fine della burocrazia, come i sanculotti inneggiavano alla fine della nobiltà. Ma riteniamo che il cambiamento nella Pubblica Amministrazione debba essere “rivoluzionario” – termine che solitamente inquieta chi ha un approccio moderato alla politica – e provocare una radicale trasformazione.


La PA ha la sua ragion d'essere nell'erogare servizi al cittadino singolo e associato. Oggi invece, in molte sue articolazioni, dimostra nei confronti delle persone un approccio burocratico e autoreferenziale che di fatto ha invertito il corretto rapporto: occorre che “la PA sia a servizio del cittadino”, e non “il cittadino a servizio della PA”. Il passaggio dalla concezione geocentrica (la Terra al centro del Sistema solare) a quella eliocentrica (il Sole è il centro del Sistema) fu correttamente definito “rivoluzione copernicana”. Non deve quindi spaventare la parola rivoluzione applicata al drastico cambio di paradigma della burocrazia.


Negli ultimi decenni l'opinione pubblica si è sempre più scagliata contro la casta dei politici, spesso anche con fondate ragioni, in un calo di credibilità che da Tangentopoli in poi è andato aumentando sino a toccare percentuali di fiducia inferiori alle dita di una mano. Ma la classe politica non può essere disgiunta, nel bene e nel male, dalla indispensabile struttura tecnica e amministrativa che deve trasformare in realtà le scelte politiche. E chi ha avuto frequentazione dei Palazzi romani, ministeri o altri luoghi del potere – e il discorso vale per Regioni ed Enti vari – sa bene che circola tra i burocrati che li popolano, a mezza voce, una frase ricorrente: “I politici passano... noi restiamo”.


In più, diffusi episodi di assenteismo, negligenza e corruzione hanno minato la fiducia che il cittadino ripone nell'apparato pubblico, di cui i politici eletti (o nominati) rappresentano solo una parte. Il recupero di credibilità delle istituzioni tra i cittadini deve quindi passare non solo dalla rigenerazione della politica, ma anche attraverso una trasformazione della Pubblica Amministrazione.


Come riuscirci?


Un primo fondamentale aspetto lo ha già individuato Michele Marino (qui il link) nella “semplificazione, abrogazione e unificazione delle innumerevoli leggi (a cominciare dai regi decreti e decreti luogotenenziali) che si sono accumulate nei decenni, attraverso la formulazione di una serie di Testi unici di riordino, a cui dovrebbero essere incaricati neolaureati in giurisprudenza con la specifica formazione del drafting (tecnico-legislativa), riducendo drasticamente il numero stratosferico di circa 160.000 leggi, cui si aggiungono quelle dell’UE, che attanagliano il nostro ordinamento giuridico”.


Un secondo ambito riguarda la qualità della dirigenza pubblica. Se “il difetto sta nel manico”, come ricorda la saggezza popolare, è dai vertici, cioè dalla dirigenza che bisogna partire. Dove ci sono strutture inefficienti, dove si lavora poco e male, ci sono senz'altro dirigenti inadeguati, se non conniventi.


Non ha torto Roberto Pertile (qui il link) nel ritenere che “il nodo del problema non è, come si pensa comunemente, un eccesso di burocrazia: al contrario, abbiamo una notevole carenza di burocrati all’altezza dei nuovi compiti che si affacciano su uno scenario sempre più esteso, ben oltre i modesti confini nazionali”.


Ritornano alla mente le parole di don Sturzo riferite alla sua Sicilia, ma valide in assoluto: “La Regione, invece di tenere due o tre mila impiegati più o meno senza titolo nei vari dicasteri ed enti, che ha il piacere di creare a getto continuo, ne tenga solo mille, ma contribuisca ad avere mille tecnici di valore, capi azienda specializzati, professori eminenti, esperti di prim’ordine”. Le logiche della politica clientelare hanno portato su un'altra strada, a privilegiare la quantità sulla qualità. Tutti abbiamo conosciuto funzionari e dirigenti ottusi, chiusi nella loro nicchia inviolabile e intoccabile, trincerati dietro regole formali, spesso complicando affari semplici senza usare il buon senso, solo perché – spesso – non possiedono qualità e argomenti migliori.


Per ovviare a tale realtà Marino ritiene “indispensabile ed urgente programmare operativamente dei corsi di formazione e aggiornamento, ai vari livelli decisionali o impiegatizi, per un atteggiamento mentale, culturale e comportamentale anti-burocratico”. Non che la formazione non serva, tutt'altro. Ma efficienza ed efficacia della macchina pubblica non sono migliorate negli anni neppure con il sistema delle valutazioni interne né con gli incentivi delle indennità di risultato: dove hanno fallito i quattrini non riusciranno i buoni insegnamenti.


Per trasformare la realtà dei fatti occorre altro. Per primo agire sul reclutamento.


Il sistema del concorso pubblico ha nei decenni mostrato tutti i suoi limiti. A ogni livello il concorso seleziona i candidati con la migliore preparazione giuridica. Un aspetto senz'altro importante, ma limitato. A un dirigente pubblico – così come a uno del settore privato – si richiedono sostanzialmente tre abilità: la competenza tecnico-giuridica, la capacità di organizzare e motivare al meglio i sottoposti, la propensione a risolvere i problemi per ottenere gli obiettivi prefissati. Mentre nel privato la selezione dei quadri dirigenti insiste sull'intera professionalità richiesta ai candidati, nel pubblico il sistema di selezione si ferma generalmente al primo aspetto. Con poche eccezioni, come al Ministero dell'Interno dove, per reclutare funzionari e dirigenti di Polizia, al duro concorso giuridico si aggiungono prove fisiche e psicoattitudinali, e due probanti anni di formazione al lavoro. Tutti i concorsi pubblici per ruoli di responsabilità (a cominciare dai magistrati...) dovrebbero essere potenziati con prove psicoattitudinali, abituali per le selezioni nel privato, capaci di individuare anche la propensione a esercitare responsabilità, leadership, gestione delle risorse umane e problem-solving.


Abbiamo invece tanti – troppi – dirigenti pubblici che una volta ottenuto il posto agognato, a tempo indeterminato e senza possibilità di retrocessione, tirano i remi in barca e hanno come massima preoccupazione quella di scansare i problemi e pararsi... il fondoschiena. Tanti esempi di moderni don Abbondio, appagati dall'essersi sistemati “in una classe riverita e forte”. E il quieto vivere si può ottenere anche con una pedissequa applicazione delle norme, nella babele giuridica del nostro ordinamento.


Certamente non sarà con una struttura ispirata a conservare il posto facendo il minimo necessario che si potrà “promuovere fiducia (…) assicurando decisioni adeguate, efficaci e tempestive sui temi della vita concreta dei cittadini”, come auspicato dal presidente Mattarella nel discorso agli Italiani del 31 dicembre scorso.


Alla riforma dei concorsi andrebbe poi abbinata la progressiva estensione del cosiddetto spoil-system, anche raggiungendo il 50% dei posti dirigenziali complessivamente disponibili, con possibili soglie differenziate, in più e in meno, dovute a specificità dei diversi Enti. La possibilità per la parte politica di poter contare su persone motivate e di fiducia – assunte con contratti a termine per il periodo del mandato amministrativo – nel raggiungimento degli obiettivi politici prefissati, a partire dalla soddisfazione dei cittadini, rientra nella responsabilità degli eletti che al termine del mandato si sottoporranno al giudizio dell'elettorato.


Siamo consapevoli che nella storia amministrativa della disastrata Seconda Repubblica abbiamo assistito ad applicazioni “all'italiana” dello spoil-system, con piante organiche gonfiate da discutibili inserimenti di clientes rimasti poi sul groppone di Enti pubblici e Partecipate. Ovviamente lo spoil system, per funzionare, va applicato all'interno di una pianta organica predefinita, e rigorosamente con incarichi a tempo: se poi il politico di turno preferisce affidarsi a un somaro fedele per incarichi di responsabilità...


Infine per trasformare la dirigenza pubblica, e più in generale il pubblico impiego, bisogna avere il coraggio di applicare il principio di responsabilità. Lo Stato, gli Enti pubblici e locali sono un rassicurante datore di lavoro a tempo indeterminato. Il settore pubblico non chiude, non fallisce, non delocalizza, non dichiara “esuberi”, non licenzia. E non mette neppure in cassa integrazione. Lo abbiamo visto anche in questi mesi di crisi coronavirus: scuole, tribunali, musei e biblioteche, uffici pubblici chiusi, ma stipendi regolarmente pagati.


Chi lavora nella PA deve essere consapevole di tale privilegiata (sì, p-r-i-v-i-l-e-g-i-a-t-a) situazione, e avere comportamenti tali da rinsaldare il legame di fiducia che non può mancare tra cittadini e pubblici dipendenti. Ogni dirigente, funzionario, impiegato pubblico deve insomma essere un po' come la moglie di Cesare...


Quindi, episodi di corruzione, concussione, truffa per assenteismo ingiustificato, negligenza grave – comportamenti che minano il rapporto cittadino-Stato – vanno drasticamente repressi. Si potrebbe ricorrere a un semplice rimedio: sospensione immediata dal servizio e dallo stipendio dal momento dell'avviso di reato sino al proscioglimento o al giudizio definitivo, e licenziamento automatico – con recupero del danno patrimoniale – in caso di condanna o patteggiamento. Può sembrare draconiano, ma è troppo importante ritrovare e alimentare la fiducia tra i cittadini e lo Stato nelle sue articolazioni, anche per rinsaldare la democrazia e le istituzioni nell'opinione pubblica. Un obiettivo che andrebbe in primis a vantaggio di quella gran parte dei pubblici dipendenti che svolge “con disciplina ed onore” (Costituzione, art. 54) il proprio lavoro.


Queste proposte forse non saranno sufficienti per risolvere tutti i problemi della burocrazia italiana, ma senz'altro vanno nella direzione della trasformazione necessaria. Perché una buona struttura di Pubblica Amministrazione è essenziale per la buona Politica.




5 Commenti

  1. Non ha torto Roberto Pertile (qui il link) nel ritenere che “il nodo del problema non è, come si pensa comunemente, un eccesso di burocrazia: al contrario, abbiamo una notevole carenza di burocrati all’altezza dei nuovi compiti che si affacciano su uno scenario sempre più esteso, ben oltre i modesti confini nazionali”.
    Direi anche che la burocrazia serve a nascondere spesso la verità. Alcuni burocrati si sono inventati lo sciopero della firma per non assumersi la responsabilità che il ruolo comporta, bloccando contratti per miliardi di euro, Quindi si tratta di carenza etica e di onestà intellettuale che nemmeno la riforma potrà sanare! Però dà la possibilità a chi timbra il cartellino in mutande di farla franca.

  2. Il “semplice rimedio” della sospensione immediata dal servizio e dallo stipendio non è giuridicamente possibile. Infatti, la decisione unilaterale del datore di lavoro di sospendere dal servizio fa sì che il lavoratore rimanga “a disposizione”: con il diritto conseguente di quest’ultimo alla normale retribuzione. Tutto questo vale sia nel diritto pubblico che nel diritto privato. Cosa diversa sarebbe se vi fosse il licenziamento con effetto immediato. E’ vero che il lavoratore potrebbe ricorrere ed avere riconosciute, in caso di esito positivo per lui, tutte le retribuzioni arretrate: ma è anche vero che in caso di condanna il licenziamento sarebbe legittimo e non comporterebbe oneri aggiuntivi.

  3. Ogni volta che sento nominare la parola “semplificazione”, provo un brivido di paura, ho un moto di stizza. Finora questo vocabolo ha accompagnato un ricorso scellerato alla tecnologia, che ha prodotto una moltiplicazione degli adempimenti da svolgere da parte dei cittadini. Ecco, la c.d. “semplificazione” si riassume in un semplice concetto: truffa. Fino ad oggi il ricorso ad operazioni online, dai più svariati siti web e corredato da pin e password che il cittadino medio dimentica in un cassetto o delega al commercialista, non ha fatto altro che spostare gli adempimenti necessari all’iter burocratico dalla P.A. al contribuente, al cittadino in genere, parlando di burocrazia in senso lato, e non soltanto in campo tributario.
    Se vogliamo davvero semplificare, è arrivato il momento che sia lo Stato ad andare verso i cittadini, e non lasciare a questi l’onere di documentare la propria attività, a piacimento dell’amministrazione pubblica.
    Buona giornata.

  4. La riforma della P.A. (al pari di quella della magistratura) costituisce una priorità per il Paese. È materia ideale per intesa bipartisan al posto dei falò di di normative che sono serviti solo a dare effimera visibilità sui media a qualche politico. Il principio di responsabilità, indicato da Alessandro Risso, cui improntare la suddetta riforma, credo vada inteso anche come orientamento a rendere maggiomente partecipe la P.A. al risultato, facendo sentire i vari enti come parte di un ingranaggio. Nella gestione di una pratica di competenza di più enti, a volte decine, non è sufficiente che ciascuno faccia la sua parte, ma ciò che conta è il risultato finale, entro precisi limiti di tempo. Responsabilizzare significa rendere la burocrazia legata nel bene e nel male alle conseguenze del proprio operato.
    Occorre, nel contempo, riporre più fiducia nei decisori politici, che devono esser liberati dalle ossessioni, imposte dall’alto, di appalti al minimo ribasso e di una concorrenza esasperata, oltre il buon senso, che penalizza le soluzioni a “km zero” e quelle che antepongono la qualità e il rispetto dei diritti dei lavoratori ai meri costi.

    Inoltre, credo che l’osservazione di Marco Gambella vada sviluppata: se le nuove tecnologie consentono di spostare adempimenti burocratici dalla P.A. sulle spalle del cittadino, allora perché non iniziare a ragionare su qualche sistema di crediti per il cittadino che esercita direttamente funzioni legate ad adempimenti burocratici per la P.A.?
    Introducendo tali innovazioni si potrebbe far sentire tutti un po’ “statali” cioè responsabili per il buon funzionamento della macchina amministrativa dello Stato e, viceversa, ogni statale farlo sentire un po’ più aderente alla condizione del “privato”, più consapevole che il suo posto dipende dal buon andamento generale.

    Infine, occorre affrontare il nodo del
    sistema romanocentrico dei vertici della P.A. Un piccolo mondo dove contano i soliti noti, le famiglie, i clan, gli amici e gli amici degli amici e che si traduce in un oggettivo handicap per la qualità e l’efficienza della nostra burocrazia. Il rimedio si chiama capitale reticolare, guardando al modello tedesco. Innanzitutto un atto d’amore verso la nostra Capitale, che contribuirebbe a decongestionare. E poi la dislocazione della maggior parte dei ministeri e degli Enti nazionali in differenti sistemi geo-economici e urbani che spesso vantano tradizioni amministrative secolari, permetterebbe di confrontare e valutare i vari modelli e finerebbe per fare da volano sul piano economico in ogni sistema territoriale, rendendo l’unità e la coesione nazionale più solida e, forse, la nostra burocrazia migliore.

  5. Dopo tanto brillante argomentare, la mia osservazione apparirà superficiale: molto bene. 50 od anche 60 anni or sono, ricordo che in ogni nuovo governo era presente un ministro senza portafoglio per la riforma burocratica, che ovviamente non combinava nulla. Anche se ora la chiamiamo semplificazione, deve essere evidente che qualunque riforma in questo campo è per sua natura in conflitto di interesse sia con gli alti dirigenti sia con i loro sottoposti. Maggiore complicazione (dimostrata dal fatto che il problema è SEMPRE complesso) comporta una crescita dello status professionale di chi se ne occupa, la necessità di più personale alle sue dipendenze che, a sua volta, aiuta il capo nel conservare la necessità del posto di lavoro di tutti. Bisogna quindi radicalmente modificare il sistema degli incentivi o, in altre parole, il sistema premiante.
    Per quanto concerne i concorsi, spesso di dubbia correttezza, la mia proposta è di abolirli!
    Nel sistema privato il dirigente è responsabile, od almeno corresponsabile, del personale che assume alle proprie dipendenze e se assume l’ amico dell’ amico risponde dell’operato della sua unità senza poter dire: “con quelli che mi hanno mandato cosa vuoi fare…!?”.
    Concludo ricordando anche che per molti posti i concorsi, per evitare brogli, sono sempre più mnemonici e sempre meno basati sul ragionamento.

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