I miei genitori, un pezzo di antifascismo



Paolo Girola    26 Aprile 2020       2

Sono figlio di due genitori antifascisti. Ma non quelli del 26 aprile, i partigiani del giorno dopo, magari già balilla o avanguardisti o giovani italiane o addirittura iscritti ai GUF (Gruppi universitari fascisti) durante il Ventennio.

No, proprio di vecchie famiglie cattoliche, antifasciste e, prima, Popolari. I miei nonni, paterno e materno, erano iscritti al partito di don Sturzo. Mio nonno materno, Pier Nicola Gallesio, subì una dura discriminazione durante il fascismo. Era segretario nazionale del sindacato CIL (progenitore della CISL) per il settore trasporti. Lavorava in ferrovia come funzionario tecnico, cattolico militante, aveva 5 figli, 4 femmine e un maschio. All’avvento del fascismo fu licenziato dalle ferrovie. La sua famiglia fu ridotta alla fame: la più grande dei figli era mia madre, che era del ’12, e andava a prendere dalle buone suore della mensa dei poveri di Torino la minestra per la famiglia. Mio nonno era anche scrittore di commedie e campò per un certo tempo scrivendo commedie per le filodrammatiche parrocchiali. La famiglia viveva sorvegliata dalla polizia. Ma, per fortuna, come spesso accade in Italia, gli agenti che dovevano controllarli non erano molto vessatori. Anzi, raccontava mia mamma che, un po’ commossi dalla loro situazione, un po’ perché c’erano quattro ragazze in casa, si comportavano piuttosto umanamente. Addirittura qualche volta parteciparono alle piccole feste familiari in cui si ballava, castamente, al suono di un gracchiante grammofono (con disapprovazione della loro vecchia zia che condannava il ballo come una cosa licenziosa…).

Mio nonno paterno, Michele, partecipò all’ultimo congresso del PPI al teatro Scribe di Torino (dal 12 al 14 aprile 1923). Mio padre ricordava di esserci andato (aveva 11 anni) e che mio nonno salutò don Sturzo all’ingresso. Mio nonno era un alto funzionario delle ferrovie (con il grado di direttore centrale). Lasciò l’incarico nel 1931, quando il fascismo impose agli alti funzionari dello Stato la tessera del partito. Quando cadde il fascismo, il 25 luglio 1943, il nome di mio nonno fu trovato nell’elenco dei “pericolosi antifascisti” schedati. In casa mia circolava una sua parodia di Giovinezza giovinezza (l’inno fascista) che terminava con “…siam fascisti dei milioni, noi rubiam per poi scappare, alle spalle dei minchioni mangiar bene non lavorare. Giovinezza, giovinezza la cuccagna finirà”. Non poté contribuire alla lotta di liberazione perché morì quell’anno.

Mia madre partecipò attivamente alla Resistenza. Fu ingaggiata nell’inverno del ’43 dalla nascente e clandestina Democrazia cristiana, mentre lavorava al quotidiano cattolico “L’Italia”, redazione di Torino. Era stata assunta in sostituzione di mio nonno che nel 1938, dopo 15 anni senza lavoro, era stato chiamato a collaborare dal direttore Arata, che ne apprezzava la scrittura. È questa una testimonianza storica di come la Chiesa – dopo le frizioni con il fascismo del 1931 e soprattutto l’alleanza di Mussolini con Hitler e le leggi razziali del 1938 – aveva capito che il regime stava portando l'Italia alla tragedia: così cercava di radunare i vecchi Popolari. Mio nonno Pier Nicola vide la caduta del regime il 25 luglio del ’43 , fu avvicinato da Piccioni e altri Popolari, a Torino, nella breve parentesi badogliana. Ma dopo l’8 settembre, in quell’inverno, fu aggredito sotto casa da una squadraccia repubblichina, lasciato svenuto e sanguinante, si prese una polmonite e morì pochi giorni dopo.

Insomma, dalla fine del 1943 la redazione torinese de “L’Italia” era un covo di “cospiratori”, dove si redigeva anche la stampa clandestina democristiana. Mia madre entrò così nella direzione del CLN torinese in rappresentanza delle donne democristiane. Mentre lavorava come giornalista, fu convocata dall’allora Arcivescovo di Torino, il cardinale Maurilio Fossati. È questo un altro pezzo di storia vissuta. Le chiesero se voleva far parte di una rete segreta per il salvataggio degli ebrei, che il Vaticano stava mettendo in piedi.

Voglio sottolineare una cosa: molto spesso si sente criticare papa Pio XII perché non avrebbe fatto nulla per salvare gli ebrei. È una menzogna totale e ne porto indiretta testimonianza. È storia nota che, nell’agosto 1944, i tedeschi arrestarono a Torino, in Arcivescovado, il segretario particolare del cardinal Fossati, monsignor Barale, dopo aver intercettato lettere a parroci in cui si raccomandava di nascondere famiglie ebree.

Ricordo molti esponenti della Resistenza cattolica che circolavano nel dopoguerra a casa mia: da Pistoni a Quarello, da Donat-Cattin a Valdo Fusi a Baracco. Una mia zia sposò nel dopoguerra un giovane eroe dello stesso ambiente, Dario Fiorensoli, recluso alle Nuove e condannato a morte, con il quale aveva corrisposto tramite la superiora del carcere madre Giuseppina De Muro. Mio zio Dario fu salvato all’ultimo momento in uno scambio con un ufficiale tedesco catturato dai partigiani. Tutte le mie, allora, giovani zie parteciparono alla lotta partigiana come staffette e organizzatrici di gruppi di donne cattoliche. Gli episodi di lotta cittadina cui parteciparono sono moltissimi, compreso quando venivano inviate ad avvicinare i repubblichini della caserma di via Asti (dove si torturavano i patrioti), facendosi corteggiare, per farli parlare e carpire informazioni sui rastrellamenti e i futuri arresti. Ricordavano che fu una stagione molto pericolosa, come lo era anche l’opera per il salvataggio degli ebrei di cui mia madre ricordava si occupassero in pratica solo i cattolici con preti, suore e parroci.

Mio padre, a Calliano, nell’astigiano, dove era sfollato, collaborava con la formazione autonoma partigiana Monferrato, di cui nascondeva in casa documenti e armi. Nel Monferrato moncalvese un primo nucleo di patrioti si formò ad Alfiano Natta a opera di Luigi Quarello con l’appoggio dei parroci della zona, in particolare don Bolla e don Finazzi. Quarello (che fu poi esponente di spicco della Democrazia cristiana piemontese) presiedeva il cosiddetto “comitato patriottico”.

Mio padre e mia madre non portavano odio verso gli avversari fascisti repubblichini, ma ne davano un giudizio molto negativo, senza revisionismi, come di bande di fanatici, avventurieri o avanzi di galera.

Mio padre e mia madre, nel 1946, furono sposati nella cappella privata dell’arcivescovado di Torino dal cardinal Fossati. A mia madre fu data anni dopo la medaglia d’argento per la Resistenza. Fu la prima donna assessore in Provincia a Torino, ma soprattutto una delle prime giornaliste in Italia. Terminò la sua carriera a “La Stampa”.


2 Commenti

  1. Caro Paolo, sii orgoglioso di una esperienza famigliare di tale coraggio e che ti ha lasciato un viatico forte.

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